questa è la trasposizione in blog di una rubrica diffusa via e-mail e accompagnata alla degustazione delle bevande descritte. Chi la legge sul web, ne perde il succo.

QUINTA STAGIONE

12/02/2024 Schweppes Hibiscus
19/12/2022 Tropical Banana
11/10/2022 milk beer
02/10/2022 sour plum soda
12/09/2022 Ivi ricoco
23/08/2022 lemon licorice
16/08/2022 Jaffa Palma
18/07/2022 Fassbrause
11/07/2022 Melon Soda
08/05/2022 Baobab Imperdibile
01/12/2021 Americano
15/11/2021 Beibingyang
08/11/2021 kvas bianco Taras
13/09/2021 Melograno Mimì
12/04/2021 Genki Forest
10/03/2021 Dr. Brown's Cel-Ray
01/03/2021 Gramotto
28/08/2020 birch beer Boylan
30/06/2020 J.Gasco Cacao Cola
28/06/2020 Fanta Green Apple
17/02/2020 Fernet Santalucia
16/12/2019 Cacata
21/10/2019 Chinotto Bianco
30/04/2019 Ramune cocco
01/04/2019 Ramune yuzu
28/02/2019 Pescamara Tassoni
29/10/2018 A.A. & Zenzero
02/07/2018 Green Cola
25/06/2018 lemon soda
10/04/2018 Frutti Rossi
14/12/2017 Uludağ Gazoz
06/11/2017 Freez Tamarind
10/10/2017 Uludag Frutti
11/09/2017 Orzata Calabria
04/07/2017 Vita Cola
12/06/2017 1904 Gassosa
03/05/2017 Coca-Cola Lime
26/04/2017 Polo Cockta

QUARTA STAGIONE

16/01/2017 Bubblegum Barr
04/01/2017 Trocadero
27/11/2016 Cocktail Maltese
09/11/2016 fructe exotice
03/11/2016 Brifcor
06/10/2016 szőlő Márka
1
4/09/2016 kanelada
31/08/2016 zelita
12/07/2016 mandarino al limone
04/07/2016 Club-Mate
16/05/2016 Outox
31/03/2016 byral
12/02/2016 Mast
12/01/2016 kofolové nápoje
14/12/2015 melone Djigie
09/12/2015 Saperavi
06/11/2015 Gira
19/10/2015 Barbaris
20/09/2015 compleanno A&B
08/09/2015 Strumka
19/08/2015 Morello
10/08/2015 Frigusor
23/07/2015 Etar
15/07/2015 Letto LimoApple
06/07/2015 Adria kiwi
25/05/2015 Oranzada
05/05/2015 Calpis Soda
14/04/2015 Hoop cola z mieta
26/03/2015 Ramune
18/03/2015 A&W root beer
25/02/2015 dandelion & burdock
09/02/2015 Irn-Bru
02/02/2015 Buratino
02/02/2015 nuova stagione

TERZA STAGIONE

28/11/2014 Rivella
12/11/2014 Baikal
03/09/2014 limonata Merano
26/08/2014 Echt Holler
19/08/2014 passoda Partanna
02/07/2014 Lychee Cock Brand
24/06/2014 Kombucha

17/06/2014 Carciofo Fardella
13/06/2014 Eppy açai-guaranà
10/06/2014 Mirto Drink
13/05/2014 Thrink! (100 bibite)
13/05/2014 kwas sliwkowym
29/04/2014 tarhun Narzan
24/04/2014 Spa Citron
28/03/2014 sciampagnino
31/01/2014 uva spumante
20/01/2014 Rabarbaro Stappj
19/12/2013 mandarino verde
19/11/2013 sambuca Tomarchio
14/10/2013 Champis etc.
16/09/2013 Tamarindo Erba
09/09/2013 Ricqles
21/08/2013 grenade Lorina
19/07/2013 pomme pétillante
16/07/2013 Brut de pomme
05/07/2013 Gambetta
01/07/2013 Mouss' OR
07/06/2013 Vinea
02/06/2013 apfelschorle
16/05/2013 Kofola

SECONDA STAGIONE

02/05/2013 Tè frizzante Lipton
11/02/2013 malta Bucanero
02/01/2013 Pommac Hartwall
09/11/2012 Boga Cidre
25/09/2012 Sarsi (filippina)
20/09/2012 compleanno A&B
11/09/2012 Stubby Caffe Cola
06/08/2012 paskmust Ikea
03/07/2012 Socată Castellaccio
18/06/2012 Traubisoda
21/05/2012 bitter Agrumetta
16/04/2012 málna Márka
22/02/2012 Laranjada
20/01/2012 Jianlibao
12/01/2012 Sumol summer-fest
16/12/2001 ginger Puertosol
07/12/2011 Schweppes ging.ale
24/11/2011 Vimto
02/11/2011 Corsica Cola
12/10/2011 cedrata Silva
10/10/2011 cartamata Noi&Vo
i
06/10/2011 Cockta
09/09/2011 One-O-One cola
18/07/2011 Bergotto
27/06/2011 Spumador Menta
30/05/2011 Liquir Frizz
23/05/2011 Fayrouz pineapple

PRIMA STAGIONE

18/04/2011 Soda alla Vaccinara
28/03/2011 Almdudler
22/03/2011 spumante per bimbi
18/03/2011 Chilsung Cider
11/03/2011 cola COOP
28/02/2011 cream soda Monolith
21/02/2011 gassosa al caffé
14/02/2011 spuma bionda Vera
04/02/2011 kvas Monolith
31/01/2011 Manzana (facsimile)
19/01/2011 Mezzo Mix
14/01/2011 aranciata Blues
10/01/2011 Elephant ginger beer
06/12/2010 Mirinda fragola
28/11/2010 Guaranà Antarctica
23/11/2010 gaseosa La Casera
19/11/2010 VafFanCola Black
10/11/2010 pompelmo Noi&Voi
05/11/2010 Frutti-Fresh
02/11/2010 Bibita Filosofale
20/10/2010 7 Up
15/10/2010 Conad cola-lemon
11/10/2010 Fanta struguri
06/10/2010 Limoncedro Neri
01/10/2010 Spumador 1938
28/09/2010 comunicato
27/09/2010 Inka Cola
20/09/2010 Aranciosa Neri
20/09/2010 presentazione


SUPPLEMENTI

Tre Souvenir da Baku
    - Rosa Qizil Quyu
    - Mojito San-Slavia
    - Caffè Sarikiz
Gioietta
Skopje & Pristina
    - Gora Cola
    - RC Refresher Lemon Lime
    - Extra JUPI
    - Shpepës
La dinastia Sockerdricka
---- Sockerdricka
---- Fruktsoda
---- Loranga
   - Cuba Cola
   - Krusbär
Compagna Limonad
---- limonad
---- Karamelinis
   - Citro
  - ayva (cotogna)
   - kwas wiśni (visciola)
   - Isindi - variazione sul tema
   - feyxoa
  - Dyushes
Postilla Bulgara
---- Saĭder
---- Limonada
Postilla Tirolese
---- schwarze johannisbeere
---- "morgenfrische"
Malto e Luppolo
---- le Panaché de Saint-Omer
---- Karamalz Fresh Lemon
---- Karmi Tiramisu
---- Supreme
  - Cortes Arbuz Melon (radler)
Le Altre Cole
---- Royal Crown Cola
---- cola Fresh Drink
---- Yank Cola
---- Breizh Cola Stévia
---- Whole Earth cola
---- Texa's Inn Cola
---- Delidor Spicy Cola
Il Triangolo del Chinino
---- acqua tonica
---- bitter lemon
---- aranciata amara
----
bitter bianco
Tour gassose Mezzogiorno
---- gassosa Chiurazzi
---- gassosa Di Iorio
---- gassosa Avena
---- gassosa Gallo
---- gassosa Siete Fuentes
---- gassosa Arnone
---- gassosa Tomarchio
---- Agrodolce Tomarchio
---- Partannina
VafFanCocco
Protesta contro il cartamo
Soda alla Vaccinara (facezie)
Elephant Necto (avariato)
Viaggio a Fez (Marocco)

 

12/02/2024 - appendice CI

Schweppes Hibiscus

Oggi il Karkadè è entrato nell’uso comune il suo consumo assorbe i tre quarti per infusi. Si può calcolare che l’uso del Karkadè porta un contributo notevole anche alla sanità della razza, perché i pregi di questa droga sono infinitamente superiori, dal punto di vista dietetico e da quello biologico a quelli del caffè, tè, ecc.
Questo leggo sul numero di gennaio-febbraio 1941 della pubblicazione fascista "L’Industria Nazionale - rivista mensile dell’autarchia", all’interno dell’arrticolo "L’ora del Karkadè - Tè Rosa dell’Impero", che sgue ad altri ugualmente interessanti come "Lo sviluppo produttivo del tabacco italiano" e "La ginestra - pianta tessile nel quadro autarchico".
Quindi ad un certo punto, al di là della propaganda, forse questa coltura coloniale un suo posto nell’alimentazione italiana l’ha veramente occupato. Più avanti nello stesso articolo trovo menzionata addirittura una bibita:
Oggi a base di Karkadè troviamo pure in commercio caramelle, sciroppi, ponci e liquori; compresse per macchina espresso; una bevanda gassata, la quale è stata oggetto di lunghi e pazienti studi; […]

Ma allora che fine ha fatto dal dopoguerra quest’alimento salutare, prelibato e gradevole nell’aspetto? Deve essere stato un po’ accantonato, per poi essere ripescato come prodotto esotico, visto che in molti paesi tropicali gode di una diffusione ampia ed antica mica appesa alle artificiali promozioni di regime. Non è stato dunque dimenticato come il caffè di cicoria, ma certo non abbiamo più avuto bevande gassate a quel gusto. Eppure la bevanda che deriva dall’infuso del calice del fiore dell’Ibisco ha un bellissimo colore rosso naturale e proprietà come una leggera asprezza che la rendono una perfetta candidata per le bibite gassate, anche se quel colore è da noi occupato da altri gusti. Diffuso in Africa sotto il Sahara e in Egitto, in varie regioni asiatiche e in America Centrale, il karkadè viene consumato sia come tisana calda che come bevanda rinfrescante, con tanti nomi diversi; in Senegal, col nome di bissap, è addirittura la bevanda nazionale. Forse sconta lo stesso tabù di una bevanda antica e radicata nelle tradizioni come il tè, così difficile da immaginare frizzante che ci provano in pochi a proporlo.
Qua e là compare qualche bibita gassata al karkadè, senza grande diffusione e forse l’esempio più solido è nella vasta gamma della messicana Jarritos in cui figura anche il gusto “Jamaica”, essendo la bevanda generalmente chiamata “Agua de flor de Jamaica” nel Centroamerica.

Per ora noi ci dobbiamo accontentare di questo tentativo della Swhweppes che la include nella sua linea europea “Selection” in bottiglie con preziosa forgia di ampolla da 45 cl e 20 cl. Ne viene fuori una specie di tisana ipergassata dalle caratteristiche bolle fitte e giganti di Schweppes, con un profumo di assalto floreale e un sapore più di pesca che di frutti di bosco. Il suo fallimento sta nella premessa: è una tonica all’ibisco, ma il contrasto tra il fiore e il chinino è troppo forte per chi non la usa come mixer e se la vuole godere da sola. Può darsi che interessi per esempio a chi apprezza l’aranciata amara, ma a me sembra un esperimento da annoiati.
Il gusto esiste, è lì da secoli, è buono e sembra prestarsi perfettamente,sicché aspetto un prossimo tentativo, più semplice, più efficace, più sincero.

La bottigliotta da 45 cl con tappo a vite l'ho trovata in un Carrefour di Parigi, dove evidentemente è più raggiungibile che in Italia, anche se sul sito della Schweppes francese la linea Selection viene definita "“unica, destinata ai professionisti dei bar e agli amatori dei cocktail”. Recentemente l'ho trovata anche a Roma, da Doreca, nella più piccola bottiglietta da 20 cl con tappo a corona.


16/11/2023
nel nuovo supplemento Tre Souvenir da Baku presento tre bibite raccolte nella prima spedizione caucasica


19/12/2022 - appendice C

Tropical Banana

Da certi punti di vista la banana è il frutto perfetto; un prodotto alimentare di madre natura (con l’aiuto umano) alla cui imitazione l’industria può ambire come modello definitivo; l’ennesima prova per le teorie antropocentriche. Un frutto che la selezione ha reso perfettamente godibile, dalla consistenza morbida, senza semi né altri scarti, uniforme nel proprio gusto dolce e delizioso; auto-dotato di una confezione impermeabile e resistente, eppure apribile più comodamente che con una cerniera lampo. Con queste premesse di solito non se ne cava una bibita buona: nelle bevande gassate sono meglio ospitati i frutti ostici alla commestione, meglio se rappresentati dall'estratto di una precisa porzione. Infine le banane sono coltivate nei paesi tropicali e disponibili tutto l’anno con le stesse caratteristiche, sicché una banana è in qualche modo simile ad una bottiglietta o a una lattina di bibita e tutto ciò diminuisce la necessità della trasformazione. Ciò detto, è impossibile non essere curiosi su una gassosa alla banana e oggi ci togliamo questa curiosità andandone a pescare una versione direttamente all’epicentro. Finora infatti abbiamo solo sfiorato il gusto con la Zelita cretese, che lo richiama senza vincolarsi ad esso; ma per una vera banana soda l’epicentro è l’Honduras, il paese a cui si ispirò l’inventore del concetto di “repubblica delle banane”, lo scrittore americano O. Henry, usandola per la prima volta in un libro del 1904.

In Honduras c’è un consumo molto alto di bibite gassate e un grande e antico produttore, la Cerveceria Hondurena, che oltre a imbottigliare Coca-Cola, Fanta e Sprite, produce le due antiche bibite honduregne con marchio Tropical*, ai gusti di uva e banana. Tutte da consumare in grande quantità e per questo confezionate anche nel comodissimo fiasco in pet da 3 litri. La Cerveceria Honduregna si è formata accorpando alcuni produttori di birra sorti in Honduras a partire dall'inizio del '900 anche grazie ad investitori stranieri e ora appartiene alla grande multinazionale birraia AB InBev.
Oggi assaggiamo la bananata Tropical, nella sua bottiglietta in vetro da 12 once (355 ml circa) senza etichetta, solo col tradizionale marchio in cui la T iniziale è una palma.

Senza gli assaggi di qualche alternativa è difficile dire cosa non sia centrato in questa banana soda, nonostante la sua "origine garantita". Il sapore di banana è insieme soffuso e mellifluo; dolcemente vanigliato, si alterna ad una sensazione più secca, che comunque non ostacola l'insorgere di una sensazione di sazietà già al primo bicchiere. L'aroma naturale di banana sarebbe l'unico contributo al sapore, eppure forse il gas lo distorce, lo fa apparire innaturale. Poco male: un'altro paese e un'altro gusto esplorati, ma una strada ancora aperta all'esplorazione.

Trovata all'alimentari affianco alla Metro Laurentinaal prezzo di 2,50 euro.

*Sul sito ufficiale appare una svolta nell’uso del marchio Tropical da parte della Cerveceria Hondurena, che abbandona il vecchio logo legato ad una palma caraibica e acquisisce quello della Fanta, sostituendosi ad esso anche per la produzione dell’aranciata.


23/11/2022
ancora un capitolo del supplemento Compagna Limonad con la Dyushes, il gusto fruttato più popolare nelle bibite sovietiche


18/10/2022
nuovo capitolo del supplemento Compagna Limonad con la feijoa, un classico caucasico da un frutto adottato nel secolo scorso


11/10/2022 - appendice XCIX                    

milk beer ( 奶啤 ) - Tianhui

Abituati ai nomi fuorvianti di alcune bibite straniere, potrete sperare che questo sia il caso tipico, oppure lo stravagante nome commerciale di una nuova gassosa bianca da promuovere. Macché... è tutto vero!
D'altra parte nel ventunesimo secolo i tentativi di mischiare latte e birra erano stati diversi: il Lactiwell in Francia, il Bilk in Giappone, qualcos'altro negli Stati Uniti; però è in Cina che il connubio si è smarcato dal ruolo di tentativo bizzarro e ha preso le sembianze di una nuova categoria, ancora difficile da inquadrare, ma con distese immense di nuovi potenziali consumatori.

La maggiore predisposizione dell'Oriente a questo apparentemente assurdo miscuglio deriva da una pratica millenaria dei popoli che abitano il Kazakistan, il Kirghizistan, la Mongolia e il nord della Cina; quella di far fermentare il latte di cavalla, producendo il kumis, una antica bevanda alcolica dal nome di origine turca, che ha la prima testimonianza con Erodoto nel quinto secolo a.c.. Una tradizione dal forte impatto culturale che ha determinato anche la generale ingerenza del latte e dei suoi derivati nelle gassose orientali.
La milk beer cinese si è sviluppata alla fine del primo decennio di questo secolo nella regione della Cina occidentale Xinjiang, confinante proprio con Kazakistan e Kirghizistan, per poi diffondersi in tutto il paese col moltiplicarsi dei marchi. Al lento avvio dovuto alle difficoltà tecniche nel bilanciare i fermenti e i processi di produzione, è seguita una grossa espansione e l'affaccio su un futuro incerto, in bilico tra la definitiva affermazione di uno standard e la bocciatura di un fenomeno effimero legato alla moda, alla novità e alla forte promozione sui canali moderni.

la birra al latte ha ancora una collocazione commerciale incerta, a partire dai supermercati, sospesa tra le bibite gassate, la birra e il reparto lattiero-caseario. Inoltre, sebbene la maggior parte dei prodotti abbiano un contenuto di alcol abbondantemente sotto la soglia delle bevande analcoliche, il nome e il sapore generano diffidenza nel consumatore al momento di decidere a chi sia adatta e in quali situazioni. In attesa del consolidamento di una posizione più netta, sono evidenti anche alcuni tentativi di indirizzare il prodotto, ad esempio con la confezione di quello che assaggiamo noi, bianca e rosa; non unica, ma diversa rispetto al bianco e blu della prima marca Tianrun e della maggior parte di quelle che sono seguite. Un elemento di distinzione e un probabile ammicco al pubblico femminile.

La milk beer dell'assaggio di oggi è la Tianhui, di una ditta fondata nel 2002 nella città di Qingdao, sulla costa orientale cinese. La sua lista di ingredienti è la più lunga che abbia mai letto sull'etichetta di una bibita: acqua, sciroppo di fruttosio, latte intero in polvere, zucchero bianco, latte scremato in polvere, destrosio commestibile, succo d'ananas concentrato, malto, riso, luppolo, carbossimetilcellulosa sodica, gomma di xantano, pectina, acido citrico, acido lattico, acido malico D L 1, citrato di sodio, sucralosio, acesulfame potassico, ciclamato di sodio, sorbato di potassio, anidride carbonica, aroma, Streptococcus thermophilus, Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus. L'unico apparente intruso è il succo d'ananas, presente in questa come in diverse altre milk beer cinesi; avrà il suo apporto, ma forse per coglierlo bisogna abituarsi in qualche modo al ben più evidente contrasto tra latte e birra fondativo di questo genere, da cui non viene fuori nulla di inaspettato o diverso dalla sovrapposizione dei due gusti, entrambi ben presenti. Qualcosa di simile nel sapore deve stare forse solo nell'usanza, in qualche paese centramericano, di mescolare le bibita malta al latte.

L'unica vera sorpresa del gusto non è tanto il risultato, ma il fatto che si possa costruirlo. Tra i tanti sapori di una bevanda gassata non avrei immaginato di imbattermi in quelli della mia coccola alimentare mattutina, fatta di latte freddo e biscotti. Ecco quello che sembra questa milk beer cinese: biscotti d'orzo completamente sciolti in un latte cremoso. Tutto però disgraziatamente gassato.

Trovata in un negozio di Via Paolo Sarpi a Milano. La lattina da 300 ml (non 330 come le nostre) mi è costata 1,80 euro.


02/10/2022 - appendice XCVIII                    

sour plum soda ( 酸梅汽水 净含 )

Bibita gassata alle prugne aspre. Non proprio inviatante la traduzione italiana del nome di questa bevanda cinese, anzi quasi minacciosa; però in patria è considerata molto dissetante ed è legata ad una tradizione antica.

Qualche capitolo fa abbiamo incontrato il rinascimento delle bibite cinesi, simboleggiato dalla pechinese Artic Ocean, uno dei grandi produttori nazionali affossati dalle stategie industriali e commerciali di Coca Cola e Pepsi durante gli anni '90. Ora che sono rinati molti dei vecchi marchi cinesi, in un mercato in crescita in cui il consumo procapite è ancora molto inferiore ai valori del mondo occidentale, la loro sfida può essere quella di allargare la gamma dei prodotti e di espandere il proprio mercato oltre i confini provinciali in cui ognuno di essi è ancora ristretto. Due esigenze contraddittorie rispetto allo spirito che ne ha rianimato la rinascita, impregnato del legame con le tradizioi gassosaie e col proprio territorio storico. Nel frattempo rimangono relegati a basse quote di mercato, ostacolati anche da prezzi praticati molto superiori a quelli dei prodotti dei colossi internazionali.

In questo contesto Artic Ocean, partita dalla riedizione della propria celebre aranciata, ha allargato i formati a lattine e pet e la gamma ad altri due gusti, mandarino e prugna. Per la seconda, oltre ad una ricorrenza nel mercato delle bibite asiatiche (Vietnam soprattutto, ma anche Giappone, Corea, etc.), c'è anche un collegamento con la tradizione. Il suanmeitang è infatti una millenaria bevanda cinese a base di prugne secche affumicate, zucchero e qualche eventuale condimento come osmanto e liquirizia. Si è diffuso prima nella corte imperial,e per poi diventare una bevanda del popolo, essere venduta in strada da venditori ambulanti, che come i nostri acquaioli la tenevano fredda col ghiaccio, fino ad essere prodotta anche industrialmente solo negli ultimi decenni del secolo scorso. Il suanmeitang per i pechinesi è legato ad una tradizione di refrigerio dissetante che quasi automaticamente si traduce in gassosa, come avviene con la bibita di oggi*.

Non è così automatico per noi, che le prugne le mastichiamo solo; e così il gusto di questa sour plum soda risulta poco familiare, più curioso che piacevole, non allineato al puro gusto del succo di susina, ma evidentemente ad un elaborato derivato del frutto.
Non proprio una susinata dunque,ma una bibita alle prugne secche affumicate.

Trovata all'alimentari cinese di Via Carlo Alberto.

*Anche Coca-Cola non si è fatta sfuggire il passaggio: nell'Epcot, il Dysney Park della Florida ispirato ad una esposizione mondiale permanente, c'è un dispenser di bibite alla spina da molti paesi stranieri (non sempre gli stessi). A rappresentare la Cina c'è stata anche la Smart sour plum soda, in cui Smart è il marchio di diverse bibite gassate fruttate del gruppo nel mercato cinese. Si tratta soprattutto di un riferimento culturale più che commerciale, visto che l'talia è rappresentata da Beverly, il bitter del gruppo Coca-Cola mai veramente decollato ed ormai accantonato.


12/09/2022 - appendice XCVII                    

Ivi ricoco

In questo, come in alcuni dei prossimi capitoli della rubrica, ho l'occasione di colmare qualche lacuna. Le bandierine che posso aggiungere oggi sono due: una sulla carta geografica e una sulla fruttiera, con una bevanda albanese all'albicocca.

Non ci sono molte bibite gassate al gusto di albicocca nel mondo, ma questa della mescita odierna ha una storia di diversi decenni testimoniata da immagini di lattine presenti online, che mi fa supporre che sia ormai un classico regionale. Un altro indizio è la presenza nel mercato albanese di un'imitazione a marchio Fanta, che corrisponderebbe al solito tentativo del gruppo Coca-Cola di erodere il mercato del prodotto nazionale, come ad esempio avvenuto in Italia col chinotto. La bibita porta sull'etichetta il marchio della greca Ivi, una ditta nata nel 1936 e così nominata in omaggio alla dea Ebe, figla di Giove, scelta non a caso in quanto coppiera degli dei. Ivi è diventata nel 1973 l'imbottigliatore nazionale della Pepsi fino ad essere da quest'ultima acquistata nel 1989. A partire dagi anni '90 il marchio Ivi è stato usato da Pepsico come riferimento per le bibite fruttate anche in altri mercati come Albania, Serbia e Cipro. La Ivi all'albicocca deve aver trovato terreno fertile in Albania, dove il frutto è molto coltivato e diffuso e negli anno '90 il mercato alimentare si è aperto ai prodotti stranieri. Ogi è imbottigliata su licenza in una fabbrica della città di Argirocastro, nel sud del paese.

Il nome "ricoco" scritto minuscolo e nelle ultime versioni riportato nella dicitura "ricoco i gazuar", quindi usato come nome del frutto piuttosto che nome originale della bbita, farebbe pensare ad un nomignolo del frutto derivante dal termine greco βερύκοκκο (verýkokko). In realtà non c'è solo albicocca nella ricetta, ma il 10% di contenuto in succo è diviso con l'arancia che anzi dovrebbe prevalere visto che è citata per prima tra gli ingredienti. Forse è messa lì per attenuare un sapore inusuale e altrimenti spiazzante perché istintivamente collocabile nella categoria dei succhi polposi; è questo un pregiudizio che si affaccia e svanisce presto sulla gradevolezza di un gusto, forse un po' infantile, ma ben dosato e definitivamente appetitoso. Alla fine Ivi ricoco è una vera e buona bibita all'albicocca, in cui l'arancia, per usare una metafora botanica, funge solo da innesto.

Trovata all'alimentari arabo di Via Volpato e pagata 1 euro la lattina da 33 cl.


23/08/2022 - appendice XCVI                    

Kooky's lemon licorice

Sicché dalla Finlandia ho portato finora solamente una cartolina scolorita, un po' bugiarda e un po' sincera, come quella di un monumento completamente ricostruito senza tanto rigore né celebrazione. È per via di un costume ormai sfumato e senza quella spinta nostalgica che ha caratterizzato i mercati di tanti paesi nel millennio in corso. Forse l'unica bibita veramente tradizionale della Finlandia è il sima nella sua versione analcolica, un derivato dell'idromele vichingo aromatizzato con limone, uvetta o erbe varie.
Come abbiamo rilevato in altri mercati, un panorama povero di tradizione e di gusti classici può essere più fecondo di nuove bibite, anche accostando con maggiore disinvoltura i sapori altrimenti legati a dei binari consolidati. Più o meno così nasce la bibita di oggi.

Chi ama le bibite avverte talvolta la curiosità di vedere convertito in bibita un gusto riuscito altrove, in un dolce ad esempio. La Pescamara Tassoni (app. LXXVII) e il Tiramusù Karmi (suppl. Malto e Luppolo) sono dei rari e lampanti esempi di questa curiosità sfociata, almento temporaneamente, in una ricetta industriale.
Io adoro il gelato Liuk e molte delle sue imitazioni. Non lo vedo nei suoi due elementi distinti, ma cerco di gustarlo il più possibile come un unico sorbetto composito, anche consumandolo al bicchiere, leggermente ammorbidito al microonde, per riuscire ad assaporare insieme i due gusti di limone e liquirizia. Lo adoro ma non ho trovato altrove questo abbinamento, neanche nelle apparentemente adattissime caramelle gommose, dove è già gloriosamente realizzato, tra gli altri, quello di cola e limone. Finalmente lo incontro in Finlandia in forma di bibita e ve lo porgo solennemente nella sua formula commerciale temporanea, come se non fosse un ritrovato miracoloso. Lo produce Saimaa, una ditta birraia finlandese della città di Mikkeli nella sua gamma Kooky's Sodapops; ma dovrei dire lo produceva perché già non compare più nel sito aziendale e d'altra parte il carattere provvisorio di questa bibita è evidente anche dalla strampalata etichetta della lattina, adesiva anziché stampata.

La Kooky's lemon licorice è un miscuglio eccellente, millimetricamente equilibrato, che apre e chiude una nuova via per il godimento bibitofilo. Un ritrovamento fortuito in una terra inconsapevole, un gioiello raro rinvenuto per caso; ma non lo ha perso nessuno e può essere restituito solo a chi non lo ha mai avuto, perché è stato abbandonato.


22/08/2022
nuovo capitolo del supplemento Compagna Limonad, con la rivisitazione moderna di un classico russo-georgiano


16/08/2022 - appendice XCV                    

Jaffa Palma - Hartwall

Chi si aspetta dalla Finlandia un panorama di bibite vasto e ricco di marchi e sapori rimasti nel costume del paese come nella vicina Svezia, rimane deluso: nonostante le premesse storiche e geografiche in comune, non mi è stato possibile portare dalla Finlandia una testimonianza delle bibite locali minimamente comparabile con quanto ho portato e raccontato dalla Svezia, il cui completamento ha richiesto addirittura un supplemento (vedi La dinastia Sockerdricka).
Eppure Finlandia e Svezia hanno in comune il Pommac, come bibita nazionale, prestigiosa e antica icona delle gassose scandinave, nata ed esplosa durante la messa al bando delle bevande alcoliche, che in Finlandia durò dal 1919 al 1932. Quello ho incontrato nei supermercati di Helsinki, talvolta anche nelle sue recenti edizioni speciali in bottigla di vetro con tappo meccanico, ma poco altro, se non la gamma di bibite di Hartwall, la maggiore e più antica ditta nazionale.

Alcuni elementi hanno forse limitato la caratterizzazione delle bibite Finlandesi impedendo la sedimentazione di categorie tipiche nel costume nazionale. Il primo è una certa pressione fiscale legata allo zucchero, inasprita ancora nell'ultimo decennio. Un altro è un giudizio generico di prodotto poco salubre che le ha sempre accompagnate, fin dall'epoca di maggior espansione negli anni '20 e che concorre a posizionare storicamente la Finlandia agli ultimi posti in Europa per il consumo procapite di bevande gassate. Infine vi è la "liberalizzazione" dei marchi, per via della quale alcuni dei nomi più famosi non potevano essere registrati e finivano per diventare riferimenti generici e vaghi per molte bibite, anche diverse tra loro. Da quest'ultimo fenomeno nasce la scelta del prodotto di oggi Hartwall-Jaffa-Palma, tre nomi che hanno caratterizzato la storia antica e recente delle bibite gassate Finlandesi.

Hartwall è l'unico "nome proprio" dei tre, anche se la ditta è passata di mano diverse volte, fino al 2018 in cui Royal Unibrew ne è diventata l'unico proprietario: fondata nel 1936, già dall'inizio del secolo scorso è il più grande produttore di bibite finlandese. Oggi imbottiglia su licenza Pepsi, 7Up e Mountain Dew, ma nel 1956 fu anche la prima ad imbottigliare la Coca-Cola e altre bibite del suo gruppo. Il secondo nome, Jaffa, fu probabilmente introdotto da Hartwall nel 1949 per una bibita all'arancia prima ed una gamma di bibite poi, ma divenne presto il nome generico di bevande gassate dai gusti esotici. Storia simile per il nome Palma, introdotto probabilmente dalla ditta Aurinko, il cui marchio è ormai scomparso; il nome è rimasto vivo, come già quello della città portuale israeliana, per la sua capacità di evocare suggestioni esotiche, senza identificare univocamente o definitivamente un gusto. La grande famiglia a cui sono legati questi nomi e l'epopea delle bibite finlandesi del dopoguerra è comunque quella dell'aranciata, un gusto che è stato dominante fino agli anni '90 quando venne superato dalle cole americane, mentre la cola come prodotto locale comparve nel 1946 come risultato di un approvvigionamento massivo da parte del governo finlandese del concentrato dai produttori americani e la vendita a decine di produttori nazionali privati.

Questa unione di riferimenti tradizionali, nella bibita più emblematica della storia gassosaia finlandese che abbia potuto trovare, in realtà si risolve in un prodotto nuovo, ancora diverso dai precedenti portatori di quei nomi. Resa verde da un miscuglio di coloranti naturali ed artificiali, si tratta di un'agrumata col 4% di succo totale tra arancia e limone, indecifrabili al gusto nelle proporzioni, che insieme ad altri aromi non specificati, generano un miscuglio abbastanza originale e gradevole. Non esaltante nel gusto né purtroppo soddisfacente nella sua veste di documento di una tipologia di bibite ormai desueta in un panorama che sembra quasi esente dalla nostalgia.


18/07/2022 - appendice XCIV                    

Fassbrause

Se scorro nella memoria tutti i miei incontri con le bibite tedesche, ricevo una sensazione di fastidio per un cumulo di baggianate, occasioni sprecate, scelte incomprensibili e generiche dimostrazioni di cattivo gusto. Nel mio veloce recente “sorvolo” berlinese non ho potuto convertire questo mio personalissimo giudizio generale.
Cito alcuni filoni esemplari della scarsa grazia bibitara germanica. Primo tra i tanti quello delle famose cole indigene, tra cui si stagliano sia le cole della DDR, come la Vita Cola e la Club Cola, sia la storica Afri-Cola e la modernissima Fritz-kola. Poi ci sono le interpretazioni maldestre consolidate, come il ruhbarb, la scorbutica radice ormai abbandonata in Italia come titolo di bibita ma ancora presente nelle spume nere, che in Germania viene trattata come uno smorfioso fiorellino primaverile. Poi ancora le child beer, le varie declinazioni del malto analcolico come Vitamalz e Karamalz, simili alle malta caraibiche ma ancor più lontane dalle spume e più orientate verso l’ovomaltina. Per decenza non andrebbero neanche citate Spezi, Mezzo Mix, Schwip Schwap e altri “cola mix” che di notevole hanno solo la sfrontatezza con la quale si propongono. E infine, saltando altri inciampi, la mela, il meraviglioso pomo da noi ignorato ma pienamente valorizzato ad esempio in Francia e nel Nordafrica, qui mortificato, annacquato negli schorle.

Nel ripasso globale di una trasferta berlinese di 2 giorni durante al quale non ho bevuto neanche un sorso d'acqua, ho ricevuto solo conferme, anche se ammetto di non aver potuto indagare oltre il confine che già conoscevo dei prodotti più diffusi. Eppure anche in questo panorama poco avvincente, ho trovato una nuova bibita da trascinarmi dietro e proporvi per l’assaggio. Si chiama Fassbrause (traducibile in bibita in fusto) e non è un prodotto tedesco, ma precisamente berlinese.

La Fassbrause fu inventata nel 1908 dal chimico Ludwig Scholvien per il figlio a cui intendeva proporre una bibita simile alla birra, ma adatta alla sua giovane età. Arrivò alla ricetta originale aggiungendo ad acqua e malto il concentrato di mela e l’estratto di radice di liquirizia. Però anche in questo caso la ricetta originale sarebbe segreta e appannaggio di un solo produttore del concentrato, la Wild GmbH nel quartiere Berlinese di Spandau, che ha rilevato nel 1985 la ditta Scholvien GmbH fondata dall’inventore nel 1902, il più antico produttore tedesco di essenze.
Rimasta sostanzialmente una bibita berlinese per gran parte della sua storia, con l’eccezione di un’escursione negli USA dove negli anni ’60 si iniziò a venderla col nome “apple beer”, cadde quasi nel dimenticatoio dopo la riunificazione delle Germanie e in seguito al nuovo corso delle bibite tedesche come Bionade, Club Mate, Fritz-Cola, etc. Poi ad un certo punto, grazie anche al fatto che il nome fassbrause non fosse registrato, è stata ripescata, più nella sua generica ispirazione che nell'aderenza alla formula originale. Nel 2010 un birrificio di Colonia ha lanciato una fassbrause in diversi gusti con una efficace campagna pubblicitaria e ad essa si sono accodati nel tempo diversi altri produttori tedeschi, ma non solo, tant’é che in una trasferta a Tallin lo scorso maggio ho incrociato diverse pubblicità di un produttore estone. Probabilmente in Estonia l’adozione, con una formula commerciale simile a quella di Colonia è promossa dal recente inasprimento delle regole sull’alcol, ma in generale la fassbrause presta efficacemente il nome ai produttori che vogliono assecondare le spinte al consumo di bevande leggere e naturali, strizzando al richiamo della tradizione un occhio furbamente miope. C’è poi da considerare che la Bionade, la celebre bibita tedesca di più simile ispirazione che ha spopolato enormemente in Germania dalla fine degli anni ’90, ha iniziato dal 2010 un declino che ha aperto un varco nella stessa categoria. Questo moderno processo ha fatto improvvisamente riesplodere il nome fassbrause e lo ha liberato dai confini del Brandeburgo.

Però a Berlino la fassbrause è ancora quella legata alla sua storia antica, alla quale si richiamano i produttori senza tante divagazioni o flessioni moderniste; anche perché la formula originale è in un certo senso già moderna e, con le sue ridotte calorie e un gusto fruttato ma tenue, non più confinata a bibita per ragazzi o a “birra sportiva”, come pure era appellata. A maggior ragione per l’assaggio di oggi procediamo col marchio dichiaratamente più fedele all’originale, la Rixdorfer*, che utilizza il concentrato originale e la famosa acqua dalle sorgenti minerali di Bad Liebenwerda.
Personalmente ne ho constatata la leggerezza, mentre non sono riuscito ad apprezzare la componente erbacea, forse coperta da quella fruttata che pure non è invadente. Non le ho trovato una collocazione se non come un buon dissetante quando bevuta ben fredda, ma penso che alla fine il giudizio passi da qui: assegnarle un ambito, un’occasione, oppure archiviarla tra gli insuccessi nazionali e bollarla come l’ennesimo modo per sprecare il sublime aroma della mela.

*Rixdorf è l’antica cittadina tedesca dove viveva l’inventore D. Scholvien, nel 1912 rinominata Neukölln e dal 1920 annessa alla “Grande Berlino".


11/07/2022 - appendice XCIII                    

Melon Soda Sangaria (メロンソーダ)

Una sorpresa. Una parentesi nel circo delle bibitonze giapponesi, apparentemente privo di solidi riferimenti culturali e sempre alla ricerca dello straordinario o dell’esotico. Una sorpresa e una parentesi che restituiscono un po’ di credibilità al costume gassosaio giapponese.

Quello che ci arriva dal Giappone, attraverso le notizie del web, ma ormai anche fisicamente nelle piccole china-town italiane e dai negozietti online di cibo e bevande forestieri, sembra il frutto di un folclore improvvisato e iperbolico. Una roba simile a quella dei cartoni animati nipponici che ci restituivano una interpretazione esorbitante degli sport occidentali; era obiettivamente ridicola, ma risuonava con l'esagerata deformazione epica delle nostre menti fanciulle: il calcio dei Superboys, la pallavolo di Mimì Ayuhara, il pugilato di Rocky Joe, il tennis di Jenny, il golf di Lotti, eccetera. Il mercato dei grandi produttori giapponesi sembra non avere grandi linee di tradizione, anche per questo forse rimane aggrappato al giocattolo del ramune, la bottiglietta con la biglia da noi scomparsa negli anni sessanta, dove può essere racchiuso di tutto e spesso ci finisce una versione troppo ruffiana o strampalata di tutto. E poi via, dietro a perversioni di nicchia, come ad esempio lo scempio del mezzo-mix tedesco, per il quale l’ospitalità nipponica è un caso più unico che raro. E poi ancora via con le "maschere", a ricercare una nuova identità sulla scia dei personaggi del Catch, come la Coca e la Pepsi in versione “clear” (senza colorante) o le bombe futuriste come la Pepsi Special, la cola dietetica che non solo non fa ingrassare, ma promette addirittura di far dimagrire grazie al suo apporto di destrina. E poi ancora un tripudio di gusti che pongono l’assaggio su un piano che supera quello della curiosità, fino a porsi su quello della sfida, senza includere tra queste le declinazioni latticine, dal Calpis allo yogurt, che hanno un fondo di tradizione.
Eppure in Giappone ci sarebbe anche una antica tradizione di sidri* locali, bibite vendute solo in ambito regionale, prodotte in bottigliette in vetro da piccole aziende. Centinaia di prodotti caratterizzati da acque e frutta tipici dell'area di riferimento, tornate oggi in auge con l'appeal della nostalgia, della tradizione, dell'identità o semplicemente del souvenir. Una miriade di gusti che parte dai più semplici e antichi limoni, declinati nelle specialità regionali di yuzu, sudachi e kabosu, per arrivare a sapori più particolari e passando per i frutti più comuni; senza pretesa di esaustività: mela, pesca, melone, fragola, mandarino, uva, pera, mirtillo, ciliegia, susina, mango, maracuja, albicocca, anguria, banana, nespola (notevole rarità); alcuni esclusivi come fagioli rossi, seaberry (olivello spinoso), pino, acero; alcune importazioni come il guaranà e derivazioni da altre categorie di bevande, come tè e sakè. Non so se per via della riscoperta moderna del genere o perché la bizzarria e l'eccesso sono parte integrante della tradizione, anche in questo campo ritroviamo la deriva delle proposte strampalate, tra le quali forse non si possono includere alcune plausibili curiosità come il pomodoro e il wasabi, ma campeggiano a pieno titolo il sidro alla ligua di manzo e le cole all'anguilla, al granchio e al nero di seppia.

In questo scenario completamente aperto, spettacolare, spiazzante, ho trovato una vera bibita, buona anche per noi; un prodotto in grado di risalire al contrario la corrente della bulimica importazione giapponese, al di fuori del gadget sfizioso o del curioso souvenir venduto oggi agli appassionati dei prodotti giapponesi. L’ho trovato nell’unico gusto nazionale con una certa riconoscibilità e tradizione, il melone. Ma quello che assaggiamo oggi non è il melone che di solito si trova nella bottiglietta di ramune; non ne ha le sembianze verdi brillanti, non la stucchevole dolcezza né il richiamo alle gomme da masticare vanigliate. Questa melon soda giapponese è una vera e propria gassosa al melone, col solo aroma del frutto nella sua schiettezza, senza fronzoli additivi, né coloranti; un sapore non dolcissimo e sorprendentemente secco rispetto al gusto di riferimento.
È imbottigliata da Sangaria, uno dei maggiori produttori giapponesi nato negli anni '50 e sviluppatosi con un'ispirazione salutista. Confezionata in singolari borracce di alluminio da un quartino circa, questa melon soda è una molotov contro un luogo comune e riconcilia il nostro palato verso nuove avventure nel paese del sol levante.

*In Giappone la parola sidro (cider), che parallelamente resiste nel suo significato originale, sta più o meno per gassosa e ormai è quai sovrapponibile a ramune, che invece deriverebbe da lemonade, se non per il prevalente abbinamento della seconda alla bottiglietta con la biglia.

Ho trovato la bottiglietta in vetro da 248 ml al prezzo di 2 euro presso uno dei market cinesi vicino alla Stazione Centrale di Napoli, ma è ormai diponibile anche in diversi negozi online di cibo giapponese e americano.


08/05/2022 - appendice XCII                    

Baobab Imperdibile

Nel 2015 l’Italia ha ricevuto il mondo. Il tema dell’Expo che si è tenuto a Milano era “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, un evento quindi dedicato all’alimentazione da cui anche le nostre bibite gassate non potevano rimanere escluse. Di questa presenza del tutto marginale ricordo ad esempio in diversi articoli online le citazioni sulle bibite analcoliche offerte nel padiglione russo, come kvas, baikal, tarhun, barbaris; un panorama a me caro finalmente aperto ad una esposizione tanto vasta. Sempre nel campo delle curiosità alimentari, ha avuto un grande successo il “crocoburger”, il panino di carne di coccodrillo del padiglione dello Zimbawe, tanto che la carne del rettile andò velocemente esaurita, lasciando la scena agli alternativi panini a base di zebra e di pitone. Per “buttare giù” questi hamburger esotici serviva una gassosa a tema e ci ha pensato la Fava Bibite di Mariano Comense che, ingaggiata dal console dello Zimbabwe, ha prodotto la bibita Baobab all’interno della sua gamma in bottigliette di vetro Imperdibile. Anche questa ha avuto un grande successo e, a differenza del suo accompagnamento originale, nel silenzio mediatico e pubblicitario successivo all’Expo, ha continuato ad essere prodotta e distribuita.
Sebbene il succo dei frutti del baobab sia usato per le bevande in diversi paesi africani, non sono tante le bibite gassate col sapore dei frutti dell’albero gigante. Da una veloce ricerca sul web spuntano fuori uno dei gusti della sudafricana Twizza, una Fanta che propone il binomio baobab e tamarindo sul mercato cinese e la Pepsi Baobab, rapida meteora nel mercato giapponese. Nulla di consolidato.
Ho assaggiato la nostra Imperdibile con tutto lo scetticismo possibile per una bibita d’occasione legata all’accostamento ad un panino improbabile dall’effimero clamore e ho scoperto un’ottima miscela, originale e leggera, gradevole, delicata. Nella bibita prodotta da Fava il baobab è unito al succo di uva rossa e al fiore di sambuco per creare, come sostiene Fava stessa, qualcosa che prima non esisteva. È vero, è un gusto nuovo, forse non così adatto ad accompagnare un hamburger o una pizza, ma ottimo come sfizio fruttato per una pausa o una festicciola.

Ma nel 2015 eravamo anche nel pieno di un’altra apertura al mondo; un grande flusso migratorio da paesi africani e asiatici stava interessando l’Italia; riempiva l’informazione con la continua testimonianza di drammatici sbarchi sulle nostre coste meridionali e un mare pieno di storie di speranza e disperazione che tentava di raggiungerci. Questo fenomeno nel complesso è stato gestito molto male, con l’organizzazione di una cosiddetta accoglienza completamente inefficace rispetto all’integrazione, ma molto funzionale alle strumentalizzazioni politiche e allo sfruttamento delle risorse ad esso destinate. Un fenomeno sociale ed economico la cui essenza veniva solo sfiorata dai pochi attori della grande informazione realmente interessati e più che altro indagato a partire da slogan o con riferimento a casi esemplari. Nel 2016 questa diversa “esposizione universale” ha investito anche me. A partire dal fatto casuale di un centro di accoglienza vicino casa mia e dall’incontro coi suoi ospiti, ho partecipat,o insieme a mia moglie e ad un gruppo di amici vecchi e nuovi, ad una specie di comitato di accoglienza impegnato a favorire l’integrazione di quei nostri nuovi vicini di casa provenienti per la maggior parte dall’Africa Occidentale. Un impegno mutato nel tempo, seguendo le vicissitudini di chi ha resistito alla scoraggiante ospitalità istituzionale e continua ad essere ostacolato da diverse forme di discriminazione. Abbiamo chiamato questo incontro Pianoterra e ogni tanto torniamo a celebrarlo.

Nel Baobab Imperdibile c’è il succo dei frutti di un albero considerato sacro in vari paesi africani e c’è l’uva, frutto divino nelle nostre antiche radici culturali; questa bibita sarebbe dunque adatta ad un banchetto su nell’Olimpo o ai piani alti di qualche altra residenza celeste, io invece l’ho scelto per brindare al nostro piccolo incontro, al nostro scambio, al pianoterra dell’umanità.


31/12/2021
edizione speciale: Gioietta, un presidio del folclore gassosaio calabrese in via di estinzione


01/12/2021 - appendice XCI                    

In diversi capitoli di questa rubrica è stata raccontata e celebrata la storia dei chioschi catanesi con la loro tradizione delle bibite gassate. Ha una storia simile la moltitudine dei chioschi napoletani, anch'essi nati dalla progressiva stanzializzazione del mestiere dell'acquaiolo ambulante.
A Napoli l'acquaiolo vendeva l'acqua suffregna, un'acqua sulfurea e ferrosa, effervescente naturale, che proviene dalla sorgente del Monte Echia ed affiora nella Fonte di Santa Lucia, una grotta in Via Chiatamone. Anche detta acqua ferrata, veniva raccolta nelle mummarelle, delle anfore in terra cotta col ventre grosso e il collo stretto che ne preservavano la freschezza, e venduta in tutta la città anche con l'aggiunta di spremuta di limone.
L'ambulante poteva avere un carretto e, mano mano che l'offerta si ingrandiva, questo si trasformava in una bancarella. Così l'acquaiolo (o acquafrescaio) si stabiliva e poneva le basi per i chioschi, che durante la seconda metà del '900 si sono sedimentati per tutta la città come banche dell'acqua, punti di vendita in cui trovare anche l'acqua di mare, di fiume, annevata, appannata (con briciole di pane), addirosa (aromatizzata col vino), insieme ad arance, limoni e altra frutta per un consumo "di passaggio".

Oggi sono innumerevoli questi piccoli monumenti di un'urbanistica spontanea e provvisoria. Molti si chiamano "chalet" e sono ormai integrati nel costume e nelle tradizioni dei quartieri in cui si trovano. Il loro prodotto più semplice e popolare è ancora la limonata, fatta lì per lì, con gli spremitori a tenaglia o i più moderni a manovella, l'acqua gassata dalle bottiglie in plastica e un cucchiaino di bicarbonato. Non partecipa più l'acqua ferrata, le cui fonti sono state chiuse nel '73 durante l'epidemia di colera, ma alcuni lo chiamano ancora "sarchiapone", altri "limonata a cosce aperte" a causa della postura che il bevitore assume per evitare di bagnarsi con la rapida eruzione provocata dal bicarbonato.
Alcuni di questi chioschi sono molto popolari e, insieme alla propria superficie, hanno allargato la propria offerta ad un più ampio spettro della ristorazione dolciaria, che si estende dalla colazione fino all'intrattenimento della tarda notte, senza perdere il contatto con i prodotti rinfrescanti dell'ispirazione originaria, come le bibite e le granite.

Americano

Le bibite dei chioschi napoletani non hanno la forte caratterizzazione e la grande varietà di quelli catanesi. È ormai scomparsa la spuma-carciofo, un tempo vessillo gassosaio cittadino, e l'aranciata Fanta è una bibita troppo internazionale per ricordarsi delle sue origini napoletane. Però esiste qui una bevanda gassata molto particolare che negli ultimi decenni si è diffusa nella jungla dei chioschi napoletani e ne è oggi diventata un prodotto tradizionale ed esclusivo.
In molti dei chioschi di Napoli si può chiedere l'Americano e, senza bisogno di spiegare meglio la richiesta, ci si vedrà a breve servire una bibita gassata rosastra nello stesso bicchiere di vetro delle limonate. Non si tratta della versione analcolica del famoso cocktail italiano di soda, bitter e vermut; la ricetta non è segreta, essendo preparata in bella vista di fronte al cliente: spremuta di mezzo limone, spremuta di mezza arancia, sciroppo di amarena, granita di mandorla e acqua frizzante (con alcune variazione nella forma degli ingredienti tra spremuta, sciroppo e granita, c'è poi anche chi aggiunge il bicarbonato). L'Americano è quindi un tipico prodotto da chiosco: non viene imbottigliato o conservato, ma si materializza in singola porzione solo al momento della richiesta.

Oggi possiamo degustare l'Americano grazie ad una edizione speciale confezionata per noi dal Chiosco Aurelio. Aurelio, oltre ad essere uno dei chioschi storici di Napoli, è anche uno dei più apprezzati e famosi, tanto da aver progressivamente moltiplicato i suoi punti di vendita; alla sua sede storica della Riviera di Chiaia, se ne aggiungono oggi altri tre nel centro di Napoli. Si tratta quindi dell'ultimo passo nell'evoluzione del mestiere di acquafrescaio ritratta nelle immagini in alto, dal piccolo ambulante all'edicola stabile e infine al marchio, alla catena.

Il chiosco Aurelio nasce a Chiaia negli anni '50 e ormai già da più di 50 anni è gestito dalla stessa famiglia, oggi con Marco alla sua seconda generazione familiare di acquafrescai. Marco mi ha raccontato dell'Americano come di un'invenzione di suo padre, quindi è dal successo riscosso nella riviera che si sarebbe poi diffuso in tutti i chioschi napoletani. Nelle due bottiglie che mi ha regalato per il nostro assaggio ci sono l'Americano nella sua versione standard e l'edizione "old style" con la menta al posto dell'amarena, che il chiosco Aurelio continua a produrre anche in omaggio alla propria tradizione.

     

L'origine del nome è perduta: neanche al chiosco Aurelio ne è stata conservata una testimonianza. Impossibile non pensare che ci sia di mezzo la grande presenza militare e diplomatica americana dal dopoguerra; è anche difficile non fare caso al fatto che il chiosco Aurelio sia a due passi dal consolato americano, uno dei più importanti e antichi in Europa. Ma è dalla conoscenza delle bibite americane che mi è da subito risultata probabile un'ipotesi: a parte la quasi universale base agrumata, i due ingredienti principali dell'amarena e della mandorla sono gli stessi della Dr.Pepper, una bibita americana molto diffusa in patria ma che in Italia non è riuscita mai a sfondare*. L'Americano potrebbe quindi esser nato per assecondare le richieste nostalgiche dei tanti americani che vivevano e lavoravano a Napoli.

Se è poi lecita una fantasiosa e suggestiva aggiunta alla ricostruzione, si può immaginare l'inventore dell'Americano che saluta il presidente in mezzo alla folla acclamante, appena fuori dal campo della della foto qui sotto, scattata proprio sul lungomare di Chiaia.

*Nonostante un sontuoso lancio pubblicitario nell'89 la Dr.Pepper scomparve presto dal nostro paese e solo nell'ultimo decennio è tornata a popolare gli scaffali di qualche supermercato, ma solo come prodotto d'importazione.

L'Americano è generalmentre servito dai chiosci napoletani in bicchieri da 300 ml e costa 2/2,50 euro.


15/11/2021 - appendice XC                     

Beibingyang / Arctic Ocean

Per descrivere la disfatta industriale dei grandi produttori di bibite gassate cinesi negli anni '90 ad opera dei colossi internazionali è stata usata l'immagine dell' "annegamento delle sette armate", presa in prestito da Il romanzo dei Tre Regni del XIV secolo, uno dei quattro grandi romanzi classici della letteratura cinese. Oggi assaggiamo il ritorno di una delle sette armate.

La produzione industriale delle bibite gassate era già presente in Cina nella prima metà del secolo scorso e anche la Coca-Cola si era affacciata nel paese per la prima volta nel 1927, imbottigliata dalla Watson’s Mineral Water Company. Ma le bibite gassate avevano delle caratteristiche non favorevoli alla loro ampia diffusione: non erano allineate ai dettami della Medicina Tradizionale Cinese che tanto infuenzava l'alimentazione del paese ed erano dei prodotti costosi, destinati ad un consumo d'elite. Queste caratteristiche furono poi sfruttate e modificate al servizio dell'ideologia di regime.
Negli anni '50, senza la concorrenza delle aziende straniere, nacquero e si svilupparono diversi marchi storici di bevande gassate dolci, ognuno con un suo bacino regionale e basate su pochi gusti: aranciata, mandarino, limone, lychee, pera, susina e salsaparilla. Avevano come contraltare popolare la molto più economica "salty soda", prodotta con meno succhi, ma più salutare e adatta al refrigerio dei lavoratori dalla calura estiva.
Poi arrivò la Riforma Economica Cinese del 1978 che iniziò a spalancare il paese al mercato globale consentendo ad inizio degli anni '80 il rientro di giganti come Coca-Cola e Pepsi, banditi nel '49 con la fondazione della Repubblica Popolare. Il potere d'acquisto dei cinesi aumentò trasformando un piccolo lusso come quello delle bibite gassate in un potenziale prodotto di largo consumo e la propaganda di regime iniziò ad inquadrare diversamente il genere: non più una bevanda poco salutare e un riferimento alla peccaminosa golosità del consumismo capitalista, ma un'occasione di modernità e di sviluppo industriale. Fu così che gli anni '80 conobbero l'esplosione di diversi marchi, entrati nel costume delle grandi città e oggi oggetto di un ripescaggio nostalgico, come Beibingyang, Bingfeng, Bawangji, Taigang, Haibi, Dalian, Laoshan Cola, Tisco, Dabai, etc.; addirittura la Tianfu Cola a base di peonia bianca fu sviluppata nel 1980 in collaborazione con l'Istituto di Medicina Tradizionale Cinese e designata ufficialmente per i banchetti di stato.

Gli effetti del ritorno di Coca-Cola  nel 1981, di Pepsi due anni dopo e a seguire di altri colossi occidentali, fu sottovalutato. Inizialmente le aggressive strategie pubblicitarie della Coca-Cola crearono sconcerto, tanto da generare una restrizione legale della vendita ai soli stranieri, ma ben presto questa misure dovetta cedere alla pressione commerciale e fu ritirata. Il passo decisivo dei colossi stranieri fu però quando i più grandi marchi cinesi si legarono ad essi con stretti accordi commerciali. Volevano attingere al capitale straniero per sviluppare ed allargare il proprio mercato e invece furono prima relegati al ruolo di comprimari e infine annientati a metà degli anni '90. Solo dopo alcuni anni gli imprenditori cinesi capirono che si trattava di un piano dei colossi internazionali per eliminare i concorrenti locali. Da qui l'immagine delle sette armate annegate.

In questo veloce riassunto si colloca perfettamente anche la vicenda del Beibingyang, la bibita all'arancia diffusissima nella regione di Pechino durante l'epopea delle bibite gassate cinesi. L'azienda originale è la fabbrica del ghiaccio cittadina, fondata nel 1936, requisita dai giapponesi durante l'occupazione e nazionalizzata del '49 col nome "Nuova fabbrica del ghiaccio di Pechino". Il nuovo marchio inizia la produzione di gelati nel '50 e nel '56 inizia a vendere il Beibingyang, l'aranciata con il logo dell'orso polare. Nel '94 intraprende la collaborazione con Pepsi e solo 2 anni più tardi, come diverse altre bibitei cinesi, smette di essere prodotta. Ritorna nel 2011 allo scadere dell'accordo commerciale che doveva lanciarla e che invece la teneva sommersa impedendo lo sfruttamento commerciale del marchio per 15 anni.
La vecchia formula non è più utilizzabile: stavolta non c'è la retorica dell'antica ricetta segreta, che pure esisterebbe, ma che si rivela inutilizzabile per i cambiamenti avvenuti nell'industria e nella normativa alimentare. Si cerca allora di ricreare lo stesso sapore traslato negli anni e assecondare la nostalgia dei consumatori cresciuti con il vecchio Beibingyang. Il ritorno della vecchia aranciata pechinese è subito un successo, la richiesta supera la capacità produttiva iniziale, tanto che si verificheranno delle contraffazioni, proprio come quando sparì nel '96 ed aveva ancora dei consumatori affezionati.

La politica ha influenzato così tanto le sorti di questa e di altre bibite cinesi, che è impossibile non pensare ad una strumentalizzazione della nostalgia a fini non solo commerciali o immaginare che solo il gusto determinerà vicende di questo prodotto nel prossimo futuro. Per fortuna però questo sfondo scompare nell'assaggio: la gasatura fitta, il poco succo d'arancia più forte in naso che in bocca, il colorante carotene e un pizzico di sale, partecipano alla ricetta di un'aranciata insieme ottima e banale, per una bevuta generosa e dissetante. Ottima e banale... o forse dovrei dire standard, semplice, scontata, o forse l'aranciata è l'unica bibita in cui possono coniugarsi questi due aggettivi. Forse la bottiglietta in vetro che omaggia la storia del marchio non è più adatta, mentre la lattina, in cui pure è venduta, è il nuovo perfetto contenitore per una bibita che ha come riferimento gli anni della sua massima popolarità più che quelli degli esordi.

Ho trovato la bottiglietta in vetro da 248 ml al prezzo di 2 euro presso uno dei market cinesi vicino alla Stazione Centrale di Napoli.


08/11/2021 - appendice LXXXIX                  

kvas bianco Taras (Квас Тарас Белый)

Oggi ci tuffiamo di nuovo nel mondo del kvas; già esplorato e raccontato nella sua forma commerciale più standard, nella sua resistente tradizione di "bevanda della casa" presso le trattorie lettoni e nelle varianti aromatizzate dei supplementi Malto e Luppolo e Compagna Limonad.
Questa ennesima incursione è dettata da una novità, che però rivendica il ripescaggio della forma più antica e tradizionale del kvas, o almeno di quello per il quale esiste una memoria ancora viva. Sarebbe quindi una novità degli ultimi anni solo a livello industriale. Pare infatti che il kvas moderno nelle sue versioni più diffuse non abbia, oltre al gusto, anche le sembianze genuine. Per kvas moderno intendiamo il prodotto industriale che, sebbene costituisca una categoria commerciale a parte rispetto alle birre e alle bibite gassate, è più assimilabile a queste ultime, oltre che per l’egemonia della sue declinazioni analcoliche, per il processo produttivo basato su un concentrato del gusto e su una gasatura ed una colorazione artificiali. Questa versione ormai standard del kvas sarebbe in realtà relativamente recente, perché inizia a diffondersi e diventare prevalente nel periodo post-sovietico, con la scomparsa delle botti-carro dei venditori ambulanti, prevalentemente per motivi igienico-sanitari. E pare che questa versione contemporanea non dia una rappresentazione autentica del kvas, che invece, specie nella tradizione casalinga della Russia rurale, fino ad una parte del secolo scorso, era una bevanda di tutt’altro aspetto, oltre che gusto.
Si sa, il gusto si perde, con nessuna possibilità di confrontarlo fotograficamente e scarse possibilità di farlo con obiettività tramite la memoria sensoriale, attraversata da innumerevoli e progressive contaminazioni emotive, morali, psicologiche etc. Sicché, come spesso capita nel campo delle bibite gassate, ma ancor di più in quello del kvas in quanto alimento dalla tradizione secolare, il progresso coincide con la restaurazione e non vi è orizzonte più luminoso di quello che abbiamo alle spalle: la bevanda del nonno, del trisavolo, meglio se contadino, meglio se un po’ ignorante, è per definizione migliore di ognuna delle versioni che l’hanno seguita, perché la città e la cultura sono due vessilli di un cosiddetto progresso che ha lentamente ma inesorabilmente sottratto il gusto ai prodotti della terra, viziato le pratiche culinarie e definitivamente corrotto il gusto, quale postulato genetico immutevole nei millenni e probabilmente impiantato dal creatore (me lo ha detto un giovane pubblicitario moscovita che tiene tantissimo alla preservazione del mondo dell’amata bisnonna campagnola e per nulla al profitto della sua azienda... o forse ricordo male...).

Nel 2013 il grande produttore di kvas russo Ochakovo dice di essere il primo a ripescare il kvas bianco lanciandone una produzione industriale. Per arrivare alla sua formula "ricetta di famiglia" avrebbe condotto una lunga ricerca etnografica, riscoprendo una bevanda che partecipava all'alimentazione molto meno marginalmente rispetto ad una bibita rinfrescante, entrando anche in alcune pietanze come un brodo. La Ochakovo sarebbe riuscita a riprodurre la bevanda tradizionale con una originale coltura di microorganismi capace di garantire sia la fermentazione alcolica che quella lattica nelle enormi botti del suo stabilimento.
Noi assaggiamo il kvas bianco della Taras, la marca della Carlsberg ucraina che nel 2016 si è unita al revival della bevanda. Il suo gusto è accostabile ad una birra diluita ed è presente l'annunciata componente acida. Durante gli assaggi condivisi in diversi hanno riconosciuto il sapore del miele, fino alla definizione di "caramella Ambrosoli diluita in acqua frizzante".

In generale il colore scuro del kvas dipende dalla tostatura del malto utilizzato; poi la progressiva prevalenza del colore nel secolo scorso potrebbe aver assecondato prima la vicinanza delle birre scure, poi il ruolo di alternativa alle cole americane. L'aggiunta di zuccheri avrebbe infine ulteriormente allontanato il kvas dalla sua originale vena acidula e salata.
La ricetta tradizionale del kvas bianco è semplice e non parte dal pane, ma direttamente dai suoi ingredienti: farina di segale e grano germogliato bolliti in acqua e lasciati a fermentare. Questo fa del kvas una bibita viva come il kefir o il kombucha e quindi al suo ritorno possiamo gioire brindando con essa ad una resurrezione.

Questa robusta bottiglia in pet da 1,5 litri si trova a Roma nei punti vendita della catena tedesca Mix-Markt, negozi alimentari specializzati in prodotti dell'Europa orientale. Costa 2,10 euro.


23/09/2021 - appendice LXXXVIII                

Melograno Mimì

L’ho cercata a lungo e, come spesso accade, l’ho infine trovata in un luogo e in un momento inaspettati. L’ho cercata a lungo perché per molto tempo sono stato convinto che la melagrana fosse un frutto ideale per una bibita gassata; poi ho desistito perché tutti gli incontri sono stati scoraggianti. Qualcosa ho portato anche qui dentro: la francese Lorina (app. XXVII), sofisticato gassosaio della Loira, quasi come testimonianza della mia ricerca e in un certo senso del suo fallimento, per via della mediocrità del risultato. Più recentemente col Gramotto e il Bergotto Red (app. LXXXV) le ho riaperto la porta per un tentativo nel ruolo di co-protagonista. Oggi cambia tutto: la melagrana è finalmente protagonista in una interpretazione dall'esito sorprendente.

Tutti i tentativi italiani da me intercettati degli ultimi anni, legati alle linee di bottigliette in vetro, hanno mirato all'estrema schiettezza del prodotto con risultati scoraggianti. Quella di lasciare il sapore intatto è una pratica buona per i succhi, ma non necessariamente per le bibite gassate che spesso traggono beneficio da un'astrazione del gusto; basti pensare che il genere più diffuso, la cola, non ha occasione di confronto col gusto originale per la stragrande maggioranza dei bevitori in tutto il mondo. Strano quindi che nessuno si sia cimentato in una ricetta non banale della bibita alla melagrana.

Nel 2020 è arrivata la linea Mimì della marca Dodò* che fa riferimento principalmente alle bibite dei chioschi siciliani. Due soli gusti, mandarino verde e melograno, entrambi buoni, ma il secondo è una vera sorpresa, uno squarcio nel piattume e nell'inerzia della corrente dei bevandai veristi, una vera e propria rivelazione: SI PUÒ FARE!. Ebbene sì, nei laboratori di un bibitificio senza fronzoli, c'è un Frederick Frankenstein che si è cimentato nel filone della mela granata e ne ha tratto un ottimo prodotto. È dolce, ma non troppo, è aspra, ma non troppo e sa di melagrana, ma non troppo. Insomma la melagrana c'è e si scorge in tutta la sua opulenza sensoriale, eppure un vestito di altri aromi ne soffonde l'identità, ne mitiga l'esuberanza donandole uno squisito equilibrio in cui colto e raffinato non sono i contrari di sincero.

L'unico difetto del prodotto non sta nel gusto, ma nella tenuta della confezione che lascia presto alla bibita una gasatura troppo scarsa e sottile. Se la porto in queste pagine con un anno di ritardo è per il tempo che ho impiegato a  trovarne degli esemplari non sgasati.

L'ho sempre comprata nella catena Todis a 89 cent per la bottiglia da 1 litro.

*Dodò Commercial in realtà è solo un marchio con sede a Perugia, ma si fa produrre le bibite da terzi. Questa è prodotta da Fonte Ilaria, non nuova a capolavori nel campo delle bibite gassate economiche.

Poscritto: con lo stesso marchio Dodò è in vendita anche una versione in bottiglietta di vetro da 20 cl, prodotta da S. Bernardo, un'altra azienda del Gruppo Montecristo. La formula è leggermente diversa perché prevede il 25% di succo anziché il 20% della versione in pet, ma la caratteristica che la fa preferire è la perfetta tenuta della gasatura. L'ho trovata presso alcuni supermercati Conad al prezzo di 3,49 euro per la conferione da 4 bottigliette.


12/04/2021 - appendice LXXXVII                

Genki Forest cucumber

Sembrava impossibile che la tracotanza produttiva e commerciale della Cina, cimentata in ogni gadget e bene di consumo, non invadesse anche questa specie di giocattolo alimentare delle bibite gassate. Così, dopo la misera rappresentanza dello sportivo Jianlibao (app. XI) e del singolare Cock Brand Lychee (app. XXXIX), torniamo finalmente a qualcosa di cinese. Qualcosa da un popolo non avvezzo al gassato, concentrato com'è sui suoi tè e le loro molteplici declinazioni, cionondimeno mal disposto a farsi sfuggire una fetta di economia globale. Con queste premesse viene fondata nel 2016 la marca Genki Forest presto laureatasi "unicorno", ovvero nuova impresa che raggiunge una valutazione superiore al miliardo di dollari.

Dal un loro sito web: "Genki significa buona salute o energia nella cultura giapponese". Hanno quindi avuto bisogno di un prestito, partendo dal nulla, ma anche di un modello: in un'intervista recente il loro capo ha espresso l'ambizione aziendale di diventare la Coca-Cola cinese. Con una gamma di pochi prodotti di tè e bibite gassate, Genki Forest è dunque partita alla conquista del mercato cinese e all'espansione nel Sud-Est Asiatico. La sua enorme e veloce espansione ha fatto leva su una moderna strategia di marketing che ha invaso tutti i media coinvolgendo testimonial famosi, collaborazioni con brand di altri settori e la sua stella polare di Tik Tok, con lo stesso target di età tra i 10 e i 40 anni; inoltre ha puntato molto sul canale di vendita online.
Tuttavia nel suo verosimilmente prossimo approccio al nostro mercato occorrerà che facciano attenzione ai messaggi veicolati dalle immagini; come ad esempio questo qui affianco (particolare), in cui una fresca gassosa che dovrebbe lenire l'arsura di una spiaggia assolata è facilmente confondibile con un bagnoshiuma, a causa dell'incredibile consistenza artificiale della spuma sul bagnasciuga. Anche il mare sullo sfondo non costituirebbe da noi un'attrazione balneare.

Ma almeno il messaggio e la formula di questa bibita cinese si appoggiano su qualcosa di nuovo? Più no che sì. "Zero zuccheri, zero calorie, zero grassi" (più senza-glutine e no-ogm) sono presentati come slogan rivoluzionari quando popolano da decenni le pubblicità delle bibite dietetiche. Unica novità degna di rilievo è lu'tilizzo del costoso eritritolo come dolcificante naturale acalorico*. Anche questa però è ridimensionata nella portata, per l'impossibilità di valutarne l’apporto dolcificante nella ricetta, vista la compresenza del sucralosio (sintetico), circa 800 volte più potente. In questo somiglia all'ultimo e ormai abbandonato utilizzo della stevia della Coca-Cola.

I gusti globali delle bibite gassate sono tre: pesca, arancia e cetriolo; più qualcos'altro, come uva e mela, per i singoli mercati. Per questa presentazione ho scelto il cetriolo, di gran lunga il più interessante nelle premesse. Non si tratta di un inedito, essendo stato preceduto ad esempio dall'edizione limitata della Sprite Zero Gusto Cetriolo nell'estate del 2018, ma è comunque una rarità oltre che una frontiera moderna.
Si presenta con un forte odore e sapore, molto centrati sul gusto di riferimento; poi lascia in bocca una lunga scia in cui cetriolo e dolcificante sembrano trascinarsi a vicenda ed insieme sono disturbati da un'enigmatica vena a cui sembra partecipare il pet della confezione. Qualcuno potrebbe trovarla più apprezzabile tiepida piuttosto che freddissima, anche se il cetriolo si presta difficilmente a bevute copiose o ad ad assaggi prolungati. Infine è difficile isolare il contributo dell’eritritolo: al netto delle incertezze sulla sua dosatura e sull'origine dell'aroma plastificato, sembrerebbe più neutro della stevia e più artificiale dei più comuni sintetici.

Tirando le somme, buona l’idea di non usare alcun colorante in presenza di un messaggio salutista all'interno del quale, più che come bibite analcoliche, sono presentate come acqua frizzante aromatizzata; buona l’idea di adottare un gusto come il cetriolo senza tanti confronti; niente più di questo: tutto il successo è basato su una strategia di comunicazione e commerciale che, per quanto efficace, non blandisce le nostre papille gustative. Troppo poco per l'ambizione di ripercorrere, 130 anni dopo, la strada della Coca-Cola.

Trovata in un alimentari cinese a due passi da Piazza Vittorio. La confezione unica è la bottiglietta in pet da 480 ml con un'etichetta che ne ricopre tutta la superficie.

* L'eritritolo insieme alla stevia e al monkfruit sono i soli dolcificanti di origine naturale e con zero calorie che si sono affacciati, senza ancora riscuotere un grande successo, nel mondo delle bibite gassate.


23/03/2021
riapriamo il supplemento Malto e Luppolo per presentare un radler molto originale


10/03/2021 - appendice LXXXVI                

Dr. Brown's Cel-Ray

È americanissima, non si trova niente con simili premesse altrove, ma come molte altre bibite gassate tipiche americane è caratteristica solo di una parte degli States. La Cel-Ray è una gassosa al sedano che affonda le sue radici nella storia delle american soda e mantiene il suo habitat a New York, dove è nata e dove continua ad essere prevaleentemente venduta nei negozi di gastronomia ebrei.
Il Dr. Brown probabilmente non esiste, ma è un personaggio che ben si colloca nella tradizione dei farmacisti americani pionieri delle bibite gassate, sospese tra il dolciume e il medicinale, affianco ai suoi presunti colleghi Dr. Pepper e Dr. Pemberton, il reale inventore della Coca-Cola. Non ci sono documenti neanche a supporto della data di nascita riportata in etichetta, il 1869 rivendicato dal dottore per la prima produzione della bevanda, ma è certo che tra la fine del XIX  e l'inizio del XX secolo ne fosse iniziato l'imbottigliamento e la distribuzione come Celery Tonic. Partendo dall'assunto che praticamente tutte le piante hanno qualche principio medicinale, era quindi venduta come una bibita funzionale e pubblicizzata come "come bevanda per i nervi che rafforza l’appetito e aiuta la digestione". Nel 1930 poi ha raggiunto il successo e una grande popolarità locale, soprattutto nella comunità ebrea newyorkese, grazie al riconoscimento di cibo kosher, fino a meritare il titolo di "jewish champagne". Il nome Cel-Ray arriva solo negli anni '50 quando la Food and Drug Amministration decide che deve spogliarsi dell'appellativo "tonic" riservato a prodotti con proprietà certificate.

Il gusto viene dall'estratto dei semi di sedano, più altri imprecisati aromi naturali. Io sento il sapore principale molto tenue, in un miscuglio dolce-amaro in cui spicca lo zucchero caramellato e si affaccia un poco di vaniglia. Lontano da una cream soda e da altri standard connazionali, originalmente plausibile come bibita da pasto veloce.

La sedanata del Dr. Brown non era l'unica agli albori delle bibite gassate americane, tra le soda fountain della seconda metà dell'800 e il progressivo passaggio all'imbottiglimento. Ad inizio '900 diversi marchi avevano raggiunto una certa popolarità con questo gusto botanico, come ad esempio la Lake's Celery o la Celery Cola, in cui sarebbe addirittura coinvolto un ex socio del Dr. Pebberton. Ai tempi nostri invece Cel-Ray è solo una bibita di nicchia e un'icona; la stessa Dr. Brown, passata più volte di proprietà nella sua lunga vita, vende oggi molto di più altri suoi prodotti come black cherry, cream soda o root beer.

Con questo "champagne" intendo anche festeggiare in ritardo il decennale di Aromi & Bollicine, per una qualche consonanza. Ha resistito tanti anni rimanendo un classico fuori-moda, è stato superato dagli altri gusti della stessa marca pur essendo quello più distintivo, ma soprattutto è rimasto solo, unico sopravvissuto di una potenziale stirpe di celery soda, duro come un monumento antico, ormai incapace di generare emulazione. Se sei arrivato a leggere fino qui in fondo, forse ti senti un po' come un newyorkese di sette generazioni che per gusto, curiosità, campanilismo o affetto, esce da un negozio "delicatessen" con il suo panino pastrami in una mano e una strana gassosa nell'altra.

Forse per via della sua stravaganza, è entrata nella rotazione delle american soda vendute nei negozietti online di cibo e bevande americani; l'ho comprata da uno di quelli pagando circa 2 euro la lattina da 355 ml.


01/03/2021 - appendice LXXXV                

Gramotto

Per parlare di questa devo iniziare da un'altra, che l'ha preceduta e ne è stata sicuramente l'ispirazione: il Bergotto (vedi app. IV), la bibita frizzante al bergamotto dell'azienda La Spina Santa di Bova Marina (RC), che ha dato origine ad una grande stirpe di prodotti simili.
Il Bergotto nasce nel 2009 e raggiunge negli anni notorietà e successo commerciale, dando vita ad una moltitudine di bibite gassate calabresi al bergamotto. Bergamina, Bergamella, Bergood, Bergamosa, Bergadrink, Bergò, Spriz8, Springotto, sono tutte declinazioni delle gassose al bergamotto che ho raccolto in Calabria. Variano nella composizione e nel gusto, dalle più succose alle più evanescenti, dalle più dolci alle più secche; alcune sono confezionate in piccole linee di produzione, altre, le lattine in particolare, affidate ai maggiori imbottigliatori regionali. Personalmente continuo a considerare il Bergotto la più godibile tra quante ho assaggiato, anche nella sua attuale ricetta che prevede il 20% di succo, a differenza del 12% della versione originale presentata in questa rubrica nel 2011.

Ebbene la bibita di oggi, il Gramotto, viene da questa stessa scia: al bergamotto calabrese unisce il "melograno italiano", da cui trae la connotazione più forte, anche nel vivace colore rosso, e viene imbottigliato dal Consorzio Motta, nel paese di Motta San Giovanni, solo ad una trentina di chilometri dalla tana del Bergotto.
Il Gramotto prova a rimediare ai fallimenti dei recenti tentativi siciliani di partorire una gassosa granata (Polara, Tomarchio, Bona), unendo un altro ingrediente dal gusto deciso a quello difficilissimo della melagrana. Un buon tentativo nelle premesse, ma sulla riuscita ho molti dubbi; mi sembra possa rappresentare lo sfizio curioso di un assaggio sporadico, occasionale: il Gramotto si candida a presenziare sul tavolo bianco-tovagliato di un catering ad una festa, sul tavolino di un lounge bar davanti alla seduta dell'astemio o dell'originale, ma prevedo che non riuscirà ad occupare stabilmente i frigoriferi dei calabresi o le ansie di refrigerio di chi approda al bar risalendo da una spiaggetta. Se poi sarà adatto ai cocktail, su questo non saprei che dire.

L'originale, deciso e spigoloso mix di melagrana e bergamotto non ha (ancora) generato tutti i proseliti commerciali del suo primo ispiratore, ma è curioso che l'unica imitazione venga proprio dai produttori del Bergotto. La Spina Santa infatti, dopo aver allargato la produzione di bibite gassate a chinotto, acqua tonica e gassosa al caffé, è passata al Bergotto Red, la sua personalissima interpretazione della miscela in questione.
Sebbene il capitolo sia intitolato al Gramotto, che ha la precedenza dell'originalità, oggi assaggiamo entrambe le bibit,e che forniscono due versioni agli antipodi: mentre il Gramotto si affida ai suoi ingredienti nudi, confidando solo nelle quote di miscelazione e nella bontà dell'intuizione generativa, il Bergotto Red trasforma tutto, rinnegandone il dna fino a nascondere persino il suo amato agrume; come lo faccia è difficile a dirsi, sicuramente aggiungendo ingredienti, tra cui probabilmente l'antitetica vaniglia. Il risultati sono due bibite opposte: una secca, adulta, l'altra sdolcinata, fanciullesca; una sincera, aspra, drastica, l'altra sfuggente, accomodante, simpatica.

 Gramotto                         Bergotto Red

Ho acquistato il Gramotto presso un grossista di bevande in Calabria, dove l'ho trovata in vendita anche in alcuni negozi di prodotti tipici. Si può comprare online da diversi siti, a partire da quello ufficile, fino al rivenditore attivo in questo momento su Ebay, che ha i prezzi migliori.
Le bibite Spina Santa, oltre che sui canali web, si trovano anche al "Bergotto Point" di Roma, l'edicola di Largo Vercelli


28/09/2020
nuovo capitolo del supplemento Le Altre Cole con una bibita originale ai limiti della categoria


28/08/2020 - appendice LXXXIV                

birch beer Boylan

Riapro una finestra sulle bibite gassate americane.

Questa volta tocca ad un antico standard, con alterne fortune, ma sempre presente nella tradizione delle american soda; si tratta della birch beer, oggi forse un po' dimenticata e relegata ad una nicchia commerciale, ma viva anche per via della moda delle "craft soda" che prolifera anche grazie a prodotti caratteristici, meglio se con una storia da raccontare, insieme a quelle più o meno ordinarie sulla presunta artigianalità.

Il nome, birra di betulla, dice molto sulla storia, oltre che sull'ingrediente caratterizzante di questa bibita. Similmente alle altre moderne "birre analcoliche" come root beer e ginger beer, nasce dall'evoluzione di una "small beer", una bevanda fermentata con bassa gradazione alcolica, liberandosi progressivamente di quest'ultima con la possibilità di acquisire la gasatura direttamente per iniezione di anidride carbonica nei processi di produzione. Qualche fonte dice anche che l'origine è dalla tradizione delle small beer tedesche e questo spiegherebbe anche la sua concentrazione regionale nell'area dei Pennsylvania Dutch, la popolazione tedesca immigrata in America nel XVII e XVIII secolo. Nonostante la sua lunga storia di bibita, intrecciata con quella delle altre gassose americane dalle soda fountain alle lattine e bottiglie in pet, la birch beer è venduta quasi solo negli stati del nord-est degli USA e poco conosciuta negli altri.

Da quando non viene più prodotta per fermentazione, la birch beer si ottiene con l'essenza di betulla ricavata dalla corteccia o dalla linfa e ancora oggi conserva questo, nella sua versione naturale, come ingrediente quasi unico. Ciò ne fa un prodotto più netto e tradizionale rispetto alla root beer e alla sarsaparilla americane alle quali è spesso accostato in una macro-categoria popolata da soda con forti aromi vegetali balsamici nordamericani. Se la root beer è per il mondo delle bibite americane qualcosa di simile al nostro chinotto, la birch beer è paragonabile al rabarbaro: ancora più radicale, ancora più netta nel gusto e molto meno popolare.

La birch beer viene di solito imbrunita in diverse sfumature con il colorante caramello E150, lo stesso delle cole, ma può essere venduta anche rossa o senza colorante, come una nostra gassosa. Le più famose marche che la producono sono: Pennsylvania Ducth, Kutztown, e Boylan; a me è capitata tra le mani quest'ultima, una ditta di Patterson (New Jersey) che vende tutte le proprie bibite in bottigliette di vetro ed ha un grande successo nel suo settore, non solo con le vendite, ma anche con la critica, infatti i suoi prodotti si classificano spesso ai primi posti della varie classifiche per tipo di soda nei test di assaggio. Anche per questo sono sicuro che stiamo provando una birch beer perfettamente rappresentativa del genere e che lo sbigottimento provocato dal suo gusto non ha niente a che fare con la qualità o con l'interpretazione del produttore.
Ma di cosa sa la linfa di betulla? Per i molti che non hanno mai leccato la corteccia di quell'albero è difficile anche fare una previsione, né aiutano i siti web degli entusiasti recensori di birch beer, dove si leggono spesso riferimenti agli aromi in evidenza di wintegreen e peppermint. Forse venendo da molto lontano serve parecchio tempo per penetrare questo intruglio così forte, nel quale avverto solo un lieve retrogusto caramellato e un più intenso  vago balsamo silvestre, ma è tutto coperto da un violento aroma che mi fa ripensare all'idea iniziale: intendevo aprire una finestra sulle bibite gassate americane e invece ho la sensazione di aver spalancato l'anta di un vecchio armadio chiuso da molto tempo ed essere stato travolto dalla naftalina.

L'ho comprata insieme ad altre bibite in un negozio italiano online di cibo e bevande americane. La bottiglia da 355 ml costava 1,99 euro.


02/08/2020
nuovo capitolo del supplemento Le Altre Cole con una lattina che sembra venire dal passato


30/06/2020 - appendice LXXXIII                

J.Gasco Cacao Cola

La storia di un groviglio di pregiudizi, che si scioglie in bocca.

Chi come me adora smisuratamente sia la Coca-Cola che la cioccolata, probabilmente ci ha provato, ma sa che non sono gusti accostabili. Se consumati vicini, si rovinano a vicenda. Non che tutti i singoli aromi delle cole costituiscano un'obiezione, non ad esempio vaniglia e cannella, allora forse è il gassato il problema principale: l'uno solletica, l'altro, il cioccolato, unguenta le nostre papille. Infatti sono rare e quasi tutte americane le "chocolate soda". Come può allora funzionare una cola al cacao?

Francamente mi sono accostato a questo produttore senza grande fiducia. Uno dei molti nuovi marchi di bottigliette di bibite gassate sofisticate, sbilanciato sulla mixology e con in più il poco credibile richiamo ad una storia leggendaria. La storia del mitico Giuseppe Joseph Gasco, che "comincia nei primi anni del ‘900, nell’America dei sogni e delle grandi opportunità" e che continua, sempre lui, senza arrendersi agli anni (ma quanti ne avrebbe?) "raggiungendo oggi il gusto unico di soft drink creati con ingredienti di alta qualità. Tutto raccontato brevemente, con foto da archivi web, su un sito con estensione .biz. Come può funzionare una bibita raccontata in questo modo?

Pure l'etichetta non convince. "Soft drink made using the best italian stuff" è forse pensata per prodotti più agrumosi e dimenticata anche su questo, altrimenti dovremmo immaginare piantagioni di cola e cacao nella nostra penisola. Come può funzionare un prodotto con questa premessa?

E invece funziona.
Funziona, basta. La sorpresa fin dal profumo: è veramente una "cacao scented cola", come recita la parte più azzeccata di un'etichetta comunque bella nel taglio e nel logo. In bocca il sentore è ancora netto, eppure si fonde con la cola senza litigare. Sembra una miscela sofisticata davvero, una roba che sarebbe difficile per un prodotto sbrigativo e quindi probabilmente distante dalle citate americanate. Non saprò mai come sta con il rum o la tequila, dentro ai cocktail suggeriti dal produttore, ma sono positivamente sorpreso dalla sua riuscita in veste di bibita solitaria. Non una cola a cui ricorrere spesso, ma un assaggio plausibile, credibile, perfino godibile... mio nipote direbbe "ci sta!"

L'ho comprata in un negozio Promo-Club ordinandola online: 1,39 euro per la bottiglietta da 200 ml.


28/06/2020 - appendice LXXXII                

Fanta Green Apple

Abbiamo incontrato e raccontato molte bibite alla mela, ne abbiamo apprezzato varie versioni, tanto che la protesta verso la latitanza del gusto nellla produzione nostrana è diventato un cavallo di battaglia della rubrica. Adesso però incontriamo un'altra cosa ancora, perché la mela-verde nelle sue derivazioni liquide e dolciarie è un frutto a sé stante: il suo colore omogeneo e vivace, amplificato nella rappresentazione, è un punto di rottura, sia con le mele rosse delle favole, sia con quelle dai colori più incerti e tenui della fruttiera domestica.
La mela standard è troppo familiare e conformista per diventare pop, la mela verde invece ha le carte in regola per essere astratta in un prodotto artificiale. Forse è per questo che la sua immagine, insieme al suo aroma e al colorante, hanno spopolato negli anni '80, dagli shampoo (chi non ricorda il Campus alla mela verde?) fino ai gelati, quando le gelaterie artigianali attraevano la golosità infantile col fluorescente trittico artificiale azzurro-rosa-verde dei nuovissimi gusti Puffo, Big Babol e mela verde.
Oggi sembra essere un gusto un po' demodé, come certi piatti che non si cucinano più, eppure mi stupisco che non abbia generato un filone tra le bibite gassate; resiste in qualche bevanda liscia e nei sorbetti, ma è difficile da trovare sotto forma di gassosa, anche all'estero. A parte qualche prevedibile ramune giapponese, credo che l'unico prodotto diffuso e con un marchio popolare sia quello che assaggiamo oggi, la versione della Fanta.

La Fanta Green Apple è un prodotto schock, trendy e provocante, tutto il contrario delle consuete bibite alla mela, infatti, nei paesi in cui è stato venduto, è stato sempre un prodotto in edizione limitata o comunque non è sopravvissuto a lungo all’obsolescenza della sua indole dirompente. Si caratterizza per distanza dalle altre mele: il suo verde acido sembra sentirsi forte prima al naso e poi in bocca, fino alla percezione sinestetica di gustare una gazzosa fluorescente. Così radicale e surreale da ingolosire con uno strattone, ha un gusto che sembra funzionare molto bene, almeno sulla breve distanza. Peccato per la scia, ma questo è un difetto della sua identità americana: la sensazione secca e quasi limonosa sviene sul finire, ricoperta da da uno strascico cremoso-vanigliato a cui le sode statunitensi rinunciano raramente.

L'ho comprata online, in uno dei tanti negozietti italiani di cibo e bevande americane sul web. In alcuni casi questi negozi hanno anche dei corrispondenti fisici nelle grandi città. Online queste lattine costano in genere tra 1,60 e 2 euro e la spedizione del pacco tra 5 e 8 euro, rendendo convenienti gli acquisti multipli.


21/04/2020
nel nuovo supplemento Skopje & Pristina racconto di una missione esplorativa nelle due città balcaniche e dei souvenir gassati che ho riportato indietro


17/02/2020 - appendice LXXXI                

Fernet Santalucia

"Alcune persone nascono, sai, con nomi sbagliati, genitori sbagliati. Voglio dire, succede". Così rispondeva Bob Dylan in un'intervista del 2004 quando gli veniva chiesto perché avesse cambiato il proprio nome. Non stava parlando solo del nome, ma in generale del destino di un uomo e della necessità di custodire il percorso della sua realizzazione. Robert Allen Zimmerman aveva iniziato a usare quello pesudonimo già al college di Minneapolis, ma lo fece legalmente suo solo a New York, dove si trasferì nel '61 ed iniziò la realizzazione del suo magnifico e avventuroso destino artistico.

Il nome e l'origine del Fernet, il famoso amaro quasi italiano, sono avvolti nella leggenda. Anche lui ha però fatto un viaggio, insieme ai migranti italiani in Argentina che confidavano nelle sue proprietà di digestivo, antimalarico e contro il mal di mare. E in Argentina è diventato una specie di liquore nazionale, ancora più diffuso che in Italia. Lì però ha anche dato vita ad un altra bibita che è entrata nella tradizione nazionale, il cocktail fernet-cola, diffuso a partire dalla provincia di Cordoba col nome di Fernandito. La miscela è diventata così popolare che anche la F.lli Branca la cita sul proprio sito, anche se con l'improbabile proporzione 9/1 a favore del proprio prodotto... in realtà gli stessi Fernandito imbottigliati e venduti già pronti riportano una gradazione del 4,5% nella versione standard e 8% nella "forte" o "doble", suggerendo una più diffusa e appetibile percentuale di liquore tra il 10 e il 20%.

La scorsa estate la Santalucia di Napoli ha lanciato una nuova linea di bibite in bottigliette in vetro da 10 cl e tra queste c'era un gusto inedito: il fernet. Non sono a conoscenza di altri esperimenti simili, ma questa mossa mi è sembrata subito azzeccata, fin da quando ne avevo appreso il progetto con mesi di anticipo. La realizzazione mi ha colpito ancora di più, fino a meravigliarmi che questo fernet analcolico non sia diventato negli anni '50 o '60 un vero e proprio standard di amaro/digestivo frizzante, quando altre spume, bitter, chinotto e rabarbaro si contendevano il primato di categoria.
Il sapore di questo "fernet amaro mille erbe" è perfettamente centrato sul fernet, anche se in etichetta è rivendicato un infuso naturale di erbe e carciofo, come evidente richiamo alla tradizionale spuma partenopea. La sua sovrapposizione col distillato di riferimento fa meravigliare dell'assoluta assenza di alcol e la dolcificazione mista di zucchero ed edulcoranti è perfettamente bilanciata e allineata all'inclinazione erbacea del gusto. Insomma una riuscita perfetta, un piccolo ma portentoso prodigio impossibile da non adorare per chi ama le bibite gassate e da non imitare per chi le produce.
Questa preziosa e tardiva rivelazione mi spinge al pensiero che farà inorridire gli amanti del genitore alcolico: per quanto mi riguarda il fernet completa oggi il suo vagabondaggio formativo e, come Dylan che si affaccia alla scena folk di New York, approda alla forma definitiva della sua realizzazione.

Ma come per diverse altre bibite legate all'universo alcolico mi affido anche alle sapiente consulenza dell'esperto Freeluther.

Da moderato appassionato di amari ed infusi limitrofi e spinto anche da una naturale pulsione postprandiale, mi accingo a stappare questa insolita bevanda analcolica "Fernet Amaro mille erbe", prodotto dalla bibite Santa Lucia. Sulla carta si tratta sicuramente di un coraggioso ed apprezzabile tentativo di proporre, sotto una nuova veste leggera ed analcolica, il più classico degli amari del panorama digestivo italiano. Stiamo parlando dell'intramontabile Fernet, sempre presente in qualsiasi bar o ristorante della nostra bella Italia e compagno fedele del nostro dopo pranzo. Ma veniamo a noi. Lo sfizzz che accompagna il salto del tappo è moderato, segno di una gasatura non invadente, così come la spuma che scaturisce dall'ingresso nel bicchiere. Il colore ricorda ovviamente il più classico degli amari ed è decisamente scuro come da tradizione, sicuramente anche aiutato da una punta di caramello. Già al naso si percepiscono distintamente le note caratteristiche delle erbe simbolo del Fernet, con prevalenza a mio parere di genziana e rabarbaro a discapito del carciofo, comunque presente. Al palato la nota aromatica è inizialmente abbastanza leggera, mentre la persistenza del retrogusto più amaro delle erbe è decisamente al di là delle attese. La sensazione finale è abbastanza buona, lasciando la bocca piuttosto fresca e pulita. Nel complesso un piacevole esperimento che, mi sento di dire, da ripetere. Manca ovviamente lo spunto derivante dalla assenza alcolica, ma la sostanza c'è e la sensazione di soddisafzione digestiva, o apparente tale, anche. Promosso.

Freeluther, 19 gennaio 2020.

La Santalucia, a parte una mediocre gamma di bibite economiche, aveva già dimostrato una brillantezza creativa, ad esempio con la Melannurca, una bibita che non ha mai visto la produzione commerciale in attesa di commesse sostanziose ancora non verificatesi, ma già vincente nell'idea di adottare un prodotto così diffuso e insieme connotato territorialemnte; così apparentemente adatto ad una bibita dolce e secca al tempo stesso.
Non ho potuto acquistare il fernet, che mi è stato inviato gratuitamente dal produttore, ma all'Ipercoop di Euroma2 trovo regolarmente in vendita il Cedrino, una gustosissima cedrata della stessa gamma Cuanta "i digestivi analcolici"; stessa bottiglietta da 10 cl, stesso cartoncino da 6 pezzi e prezzo totale molto basso: 1,27 euro.


13/12/2019 - appendice LXXX                

Uno dei criteri col quale ho selezionato fino ad oggi le bibite di cui raccontare, è quello di dare testimonianza di tutti i gusti con cui siano state concepite le bevande gassate, indipendentemente dal successo della ricetta. Esistono ancora tanti gusti bizzarri inesplorati, come ad esempio le bacon soda americane o i ramune al curry giapponesi, ma queste sono bibite che hanno un senso ristretto alla loro stravaganza e nell’ambito regionale in cui sono vendute. Poi esistono dei gusti che sono inaspettatamente rari, perchè legati a vegetali ampiamente utilizzati nel consumo diretto e adottati in ricette dolciarie. Di alcuni addirittura non vi è praticamente traccia e allora bisogna attrezzarsi e provare a produrli da soli. E trovargli un nome.

Come nascono e si impongono i nomi delle bibite? Se non sono nomi storici, devono affermarsi con un marchio che genera imitazioni o dal convergere di più produttori che adottano la stessa dicitura. Ci sono alcuni esempi notevoli da cui trarre ispirazione: in Italia si è imposto il nome “Ginger” su una bibita amarognola e colorata di rosso, come risultato di una larga adozione di un nome originale, perché non contiene necessariamente lo zenzero tra gli ingredienti; in Sudafrica è diffuso il genere “Iron Brew”, che nasce a New York a fine ‘800, ma di cui nonn rimane quasi traccia un secolo dopo, tanto da far scambiare le bibite sudafricane per un’imitazione della celeberrima Irn Bru scozzese; in Germania la dissennata usanza di miscelare cola e aranciata ha dato vita al genere “Spezi”, ma Spezi è anche il nome del primo imbottigliatore e di un marchio dato in licenza ad un consorzio di produttori. Sempre nel campo dell'ambiguità tra nome e marchio, ci sono diversi casi nell’Europa dell’Est di nomi di bibite che sono diventati gategorie nel libero mercato, come l'Etar bulgaro e il Frigusor moldavo, oppure sono stati trattenuti da un’unica azienda, come la Kofola ceca e il Brifcor rumeno.
Ci sono poi da considerare alcune denominazioni quasi automatiche che si creano col nome del gusto principale e un suffisso. Mentre per i tedeschi tutte le bibite sono “limonate” e, con la loro composizione delle parole, ne declinano il gusto (orangen-limonade, zitronen-limonade, ect.), nel mondo anglosassone si estende il suffisso -ade a quasi tutte le bevande, anche improvvisando: cherryade, strawberryade, raspberryade, etc. Mentre in Italia non tutti meritano l’ata: aranciata, limonata, cedrata e... basta, se si esclude l’obsoleta e fuorviante orzata. Qualcosa prende il nome direttamente dal frutto, anche nel caso di agrumi, come pompelmo e chinotto, in altri il nome commerciale può essere vezzeggiato o trasformato: Bergotto, Chinò, etc.

Con la bibita di oggi, che nasce da una ricetta originale di A&B, vogliamo estendere questa nomenclatura e legittimare una nuova inedita clamorosa categoria di bibite gassate. Tra tutte quelle che sono state giudicate tali, nessuna ha portato con altrettanta legittimità questo nome.

Cacata

Non esistono nel mondo gassose al cachi, nonostante le favorevoli premesse di un gusto tanto succoso e dolce e di un vena secca/allappante, che di solito costituisce una proprietà favorevole.

La ricetta della Cacata è piuttosto semplice e si fonda sullo sciroppo della mia consorte, che lo ha preparato cuocendo solo la polpa del frutto e aggiungendovi zucchero. Lo sciroppo è stato miscelato ad un'acqua molto gassata, in bottigliette in cui è stata immersa una fettina di limone con scorza.
Purtroppo il gusto non è venuto un granché, soprattutto perché del cachi è troppo in evidenza la componente zuccherina. Potrei trincerarmi dietro la giustificazione che  nessuno sia mai riuscito a cavarne una gazzosa, ma essendo questo un lavoro d'amore, per il principe dei frutti stagionali e per le bibite gassate, preferisco farlo dietro i versi di una canzone in cui Bob Dylan parla del suo amore: "she knows there’s no success like failure / and that failure’s no success at all".

Non c’è copyright o gelosia in questa ricetta, ma voglio mettere in chiaro una cosa con chi cerca in ogni modo di “ingentilire” la carriera di questo nobile ed antico frutto, questa nuova bibita non è una spuma al loto, è una cacata.

Poscritto: è bastato lasciare indugiare più a lungo la fettina di limone nella bottiglia, che la cacata perdesse buona parte della fragile porzione non zuccherina del cachi a favore dell'agrume, ma si trasformasse in una bitita molto più gustosa, mantenendo un sapore originale.


21/10/2019 - appendice LXXIX                

Alla fine giungiamo al chinotto.
Ho vagato lungamente invano alla ricerca di un prodotto che potesse rappresentare questa bibita all'interno della rubrica. Cercavo un chinotto eccellente ma nascosto al grande consumo. Continuamente deluso dalla scia dei prodotti bio-trendy, inaugurata da Lurisia e Abbondio ed esplosa negli ultimi dieci anni, ho continuato a preferire nel consumo lo storico Chin8 Neri nella sua versione rinata nel 2000, anche dopo il trasferimento della produzione a Salerno nel 2012, né ho mai abbandonato il meno deciso e più ecumenico Chinò Sanpellegrino.
Durante la ricerca mi sono imbattuto in alcuni casi notevoli, tra i quali citerei l'economicissimo ma gustoso chinotto che, almeno nel 2016, Spumador produceva per Lidl con vero estratto di chinotto tra gli ingredienti, in vendita sugli scaffali italiani della catena tedesca a soli 59 centesimi per la bottiglia in pet da 1,5 litri. Una menzione per l'originalità la devo poi alla bottiglietta meteora venduta per un breve periodo nella catena Todis col marchio Fresh Drink: un sapore molto originale, probabilmente tutto artificiale, che muoveva dall'arancia amara e approdava ad un dolcissimo caramello agrumato; ho scoperto che la produceva la bulgara Party Club... chissà se la vedremo mai ricomparire.
Non ho trovato niente di rilevante all'estero. Neanche a Malta che pure ha nel buon Kinnie la propria bibita nazionale. Senza rimpianti, non sono arrivato all'opera nostalgica delle lontane comunità italiane, come il canadese Brio e l'australiano Bisleri. Anche in Venezuela esiste una bibita con marchio Chinotto, ma è solo una generica lemon-lime, e da quando è stato acquistato dalla Coca-Cola, è diventato il nome locale della Sprite.

Il chinotto è ormai definitivamente una bibita tradizionale italiana, come la più antica cedrata, e più di molte altre bibite di nicchia o regionali, grazie alla sua diffusione e forse anche al doppio polo della produzione della materia prima: la riviera savonese al nord, Calabria e Sicilia al sud. Con la cedrata condivide anche la pericolosa caratteristica normativa delle bibite al gusto di " frutto non a succo", che le permette di adottare formule senza traccia del vero agrume.
Nonostante la tradizione, è difficile documentarne con certezza la nascita.  La S.Pellegrino ha più volte spostato sul proprio sito web la nascita del suo prodotto, dal 1932 fino all'ultimo più documentabile 1958. La celebre Neri è nata a Roma nel 1949, ma tra quell'anno e i primi anni '50 sono state registrate molte marche di bibite gassate al chinotto, tra le quali anche la milanese Recoaro, che dopo un primo tentativo nel 2012 è tornata a produrlo nel 2018, anche se in una veste tutta nuova, ricercata e bio. Il primo documento che ho trovato io, è questo marchio di "Aranciata al Chinotto", depositato nel 1938 dalla ditta Enrico Porzio all'Ufficio Provinciale delle Corporazioni di Udine.

Chinotto - Borea & Rossi

Proprio dal lungo percorso di ricerca del "chinotto dei chinotti", nasce l'esigenza di documentare la varietà incontrata. Vale la pena di farlo con prodotti che in qualche modo si sganciano dagli standard del mercato, come il "Chinotto Bianco" che assaggiamo oggi.

Il chinotto, come la cola e forse in opposizione a questa, adotta arbitrariamente e quasi senza eccezioni il colorante caramello, almeno dal dopoguerra. Eppure di eccezioni celebri ne hanno avute perfino la Coca Cola e la Pepsi, con le loro versioni "clear", "crystal" o "white" che si sono succedute fino a ricomparire negli ultimi anni*.
Il chinotto prodotto da Borea & Rossi è l'unico esempio di chinotto senza colorante in cui mi sia imbattuto, senza i trucchetti che adottano molte marche per millantare questa assenza confondendo ad esempio coloranti e aromi. Un caso unico, eppure non il più strano di questa marca nata nel 2012 dall'avventura di due imprenditori di Albenga che hanno deciso di imbottigliare i sapori del proprio territorio, fondando Borea & Rossi - Bibite Strane dalla Liguria, come recita il titolo del loro sito web, dove si può leggere la storia dell'impresa e dei diversi prodotti. Aperta la strada col Basilichito, hanno poi arricchito la gamma con Timo e Salvia, approdando infine al Chinotto, il primo prodotto non inedito, ma perfettamente in linea con la loro vocazione e trattato in modo molto originale.

Il sapore del Chinotto Bianco di Borea & Rossi non rincorre nessuno degli standard diffusi e assomiglia forse più a un crodino chiaro. Ha un gusto secco e lo zucchero è dosato con parsimonia; ha una percentuale di estratto dell'1%, doppia rispetto a molti riferimenti commerciali, che insieme al contributo di succo (0,95% di arancia e 0,05 di chinotto) creano un gusto agrumato indecifrabile con una nota affumicata. Non il mio preferito.

Non IL chinotto", ma certamente UN chinotto e degno di menzione.

Trovo la bottiglietta in vetro da 275 ml a partire da questa estate in alcuni supermercati Carrefour di Roma al prezzo di 1,39 euro.

* La prima comparsa di una versione chiara per le cole famose è stata la mitologica "White Coke", un prodotto speciale nato dall'apprezzamento del maresciallo sovietico Zukov che conobbe la bevanda americana grazie ad Heisenhower, generale delle forze alleate. Zukov ottenne nel 1946 la fornitura di una versione della Coca-Cola non colorata grazie all'intercessione del presidente statunitense Truman, per poterla bere senza mostrare apprezzamento per un'icona americana.
Nel 1990 la Pepsi lanciò la sua Crystal Pepsi, che durò fino al 1994, cioè fino a quando una spregiudicata operazione commerciale della Coca-Cola affossò la moda trasparente tramite l'introduzione della rivale "kamikaze" Tab Clear. Da allora varie volte è stata timidamente rilanciata la Pepsi Clear nel mondo senza seguito apprezzabile. Ultimamente sia Coca-Cola che Pespi stanno sperimentando localmente il ritorno di versioni non colorate.

** Ho assaggiato anche il Basilichito e il Timo e non mi sono piaciuti per niente, neanche con la curiosità per le bibite strane e la simpatia per questo progetto sui gusti nuovi e legati al territorio. Magari nella mixology potranno ritagliarsi un ruolo, ma come classiche bibite gassate rinfrescanti mi sembrano totalmente sgraziate.


30/04/2019 - appendice LXXVIII b              

Ramune al cocco

Un altro ramune, un altro gusto difficile da trovare.
Questa volta però il sapore è di un frutto ampiamente disponibile e molto diffuso, sia nel settore dolciario che tra le bevande lisce, il cocco. È una cosa che capita anche ad altri frutti molto dolci: sebbene le bibite gassate siano tendenzialmente dolcissime, è più facile che l’aroma di riferimento sia aspro o amarognolo e venga bilanciato dallo zucchero. Dai frutti dolcissimi è più difficile trarre una bibita che non risulti stucchevole. Nel caso del cocco infatti le gassose più diffuse lo mischiano a lime e limone e spesso senza i coloranti bianchi che possano sbilanciare la percezione conferendo un aspetto lattiginoso. È il caso ad esempio della Coco Rico, bibita storica di Porto Rico (dal 1935), ma anche di simili altre gassose diffuse ai Caraibi. Altre aree di diffusione delle bibite gassate al cocco sono il sud-est asiatico e la Nuova Zelanda. In Italia l’unico produttore di cui ho notizia è la Galvanina di Rimini, che almeno per un certo periodo ha confezionato una bibita al cocco nella sua linea iper-biologica, destinandone però la vendita al solo mercato estero.

Con l’assaggio di oggi siamo di fronte ad una versione “giocattolo” di una gassosa al cocco; di nuovo, come nel caso del ramune allo yuzu dello stesso produttore, in cui pure viene adottato l’aroma artificiale. Ne deriva l'impressione che da questi ramune sarà difficile raccogliere qualcosa di interessante sul piano strettamente gustativo, mentre probabilmente potremo in futuro ancora attingere alla categoria per prodotti singolari o estremi.
Comunque la ricetta di questa gassosa al cocco è assemblata con equilibrio e, non indulgendo alla tentazione di una formulazione "espressionista", affida al gusto personale buona parte del giudizio residuo rispetto all'oggettivamente difficile gassificazione di quella specie di latte.

Stesso negozio di alimentari giapponesi nella zona della fermata Cipro della metro A; stesso prezzo: 2,49 euro a bottiglietta.


01/04/2019 - appendice LXXVIII a              

Eccomi qui, in una "seduta" di assaggio di bibite giapponesi, insieme a chi 4 anni fa mi aveva riportato dalla terra del sol levante la Calpis Soda, una delle maggiori stravaganze gassate locali. Indosso l'altro loro souvenir: una maglietta su cui sarebbe stato traslitterato "Soda alla Vaccinara".

Ramune allo yuzu

Lo yuzu è un agrume coltivato in Cina, Corea e Giappone e usato in varie forme nelle cucine di quei paesi. Un ibrido rugoso di forma simile al mandarino e dal colore giallo-verde più vicino al limone. Aromaticissimo e pertanto usato come condimento piuttosto che come frutto fresco.
Negli ultimi anni è approdato nella cucina occidentale come ingrediente raffinato. Adottato da chef stellati, pare che oltre a regalare aulentissime note sia in grado di bilanciare alcune creazioni gastronomiche grazie al suo poderoso apporto di acidità.
Nel campo delle bevande non poteva non finire nell'arte della mixology con gli accostamenti più arditi. Esiste ormai in occidente anche qualche rara bibita gassata allo yuzu, ma finora in Italia l'unica ad essersi affacciata sarebbe la Royal Bliss della Coca Cola. Dico sarebbe perchè non ho ancora mai incontrato questa gamma di sofisticati mixer dai lunghi e irricordabili nomi sbarcata in Italia nel 2018 per contrastare l'ascesa di marchi specializzati come Fever-Tree, J.Gasco, Cortese, etc... è anche vero che io non frequento i posti giusti. Comunque la bibita si chiamerebbe Exotic Yuzu Taste Sensation Tonic Water.

Più facile rivolgersi direttamente al mercato giapponese, dove fanno bibite gassate perfino al curry, figuriamoci ad un frutto di connotazione nazionale. E infatti ho trovato il ramune allo yuzu che assaggiamo oggi. Purtroppo il ramune in generale ha una vocazione di giocoso intrattenimento, per cui non ci permetterà di apprezzare l'eccezionale aroma adottato nella culinaria più sofisticata, ma solo di farcene una vaga idea. Per di più questo ramune non contiene neanche una parvenza del frutto vero e proprio, ma soltanto il suo aroma artificiale.
Vedremo se in futuro qualche produttore si degnerà di rendere disponibile una bibita con essenza di yuzu, magari qualcosa di simile alla nostra gassosa, senza coloranti, che sappia regalarci l'assaggio di questo agrume prelibato nella sua semplicità e al contenpo sottrarlo dalle grinfie dei cucinieri d'elite. Nel frattempo ci gustiamo questa bibita giapponese abbastanza semplice e gradevole, senza i temuti fronzoli vanigliati del ramune classico, per certi versi simile alla nostra cedrata, con in più il divertimento, più esotico che nostalgico, di stapparla sbloccando la sua biglia di vetro.

L'ho trovato in un negozio di alimentari giapponesi nella zona della fermata Cipro della metro A. Costa 2,49 euro a bottiglietta e si può acquistare anche online.


04/03/2019 - appendice LXXVII                  

Pescamara - Tassoni

Per quasi sessant'anni non si sono mossi e hanno venduto solo una bibita gassata, poi si sono scatenati.
Sono quelli della Tassoni, ancorati alla loro cedrata fino al 2010, anzi, a quella che era universalmente nota come cedrata, ma che in realtà si chiamava molto più semplicemente Tassoni Soda. Quando si sono scatenati hanno infilato quasi una nuova bibita l’anno, tutte particolari e con un’aura sofisticata; tutte nella stessa confezione della sorella maggiore giallastra, la bottiglietta zigrinata da 18 centilitri.
Nell'autunno del 2014 è arrivata la Tonica Superfine, un’eccellente acqua tonica aromatizzata al cedro ed estrosamente amaricata col quassio al posto del chinino; probabilmente la più gustosa che abbia mai bevuto. Nel 2016 è arrivata Fior di Sambuco, una delicata e gradevolissima gassosa aromatizzata fedelmente al nome; uno standard che bussa alle nostre porte dall'Europa tedesca ma da noi mai veramente diffuso, forse per l'ampia disponibilità che abbiamo di limoni, cioè dell'aroma principe nella classe di riferimento. Nel 2017 è stata la volta del Mirto in Fiore, così chiamato per sancire una serie che celebrasse le fioriture italiane, rievocando inconsapevolmente anche la sciagurata adozione del cartamo nella cedrata. Ma è nel 2018 che la Tassoni fa la scelta radicale di un prodotto perfettamente originale e con un richiamo alla tradizione dolciaria piemontese e italiana in generale: pesca e amaretti. Protagonisti di un abbinamento diffuso nei dolci di diverse regioni italiane, dal nord alla Sicilia. Non solo: pesca e amaretto sono un abbinamento proposto dalla natura stessa, visto che per la preparazione degli amaretti, oltre alla mandorla amara, si può utilizzare l'armellina, il seme contenuto nel nocciolo della pesca stessa.

È un fatto raro questo di tradurre in bibita gassata un qualche gusto già noto ma non proveniente dal mondo delle bevande: la maggior parte delle nuove bibite italiane degli ultimi decenni ha tratto ispirazione da sapori già diffusi tra gli alcolici o è il frutto dell'importazione di formule già adottate in altri paesi. Il tentativo della Pescamare è anche solo per questo motivo interessante. Più difficile dire se sia un tentativo riuscito: i due sapori sono entrambi appetitosi, ben fusi ma apprezzabili; il problema è che, mentre trovo la pesca un sapore adatto al genere e inspiegabilmente mancante tra le nostre bibite, considero il gusto della mandorla molto più adatto alle bevande lisce. Il mercato stesso in Italia ha quasi definitivamente confinato l'orzata nel dimenticatoio e clamorosamente respinto la Dr. Pepper, apprezzata in molti altri paesi. Avrei puntato solo sulla pesca, magari aggiungendo un richiamo aromatico dai suoi aulentissimi fiori, per poi disegnarci attorno un'etichetta.

Per quanto mi riguarda, dunque, due buone nuove e un'inciampo: c'è una ditta storica che mostra vitalità tra le bibite gassate e lo fa, quasi da sola, senza seguire percorsi già tracciati; però con l'ultima trovata non c'ha azzeccato.

Tra i nuovi prodotti Tassoni, anche se è l'ultimo, è quello che incontro meno spesso. Fin dal lancio la trovo con continuità all'ipermercato Auchan di Parco Leonardo.


07/11/2018
col quinto capitolo de La dinastia Sockerdricka si chiude una prima fase di questo supplemento coincisa con una spedizione a Stoccolma


29/10/2018 - appendice LXXVI                  

Aranciata amara & Zenzero

Sono di parte (avversa) e ho difficoltà a recensire questo prodotto: non amo nessuno dei suoi tre elementi fondanti, sicché la loro miscela rappresenta per me una specie di ideale negativo del gusto. Ma si tratta del mio gusto personale, e invece questa bibita merita una presentazione per vari motivi. Prima di tutto perchè è un'eccezione nel panorma sterile delle pur nuove bibite bitter da discount, abbastanza uniformi nel proporre da pochi anni nei pet da un litro l'acqua tonica, il pompelmo e l’unica relativa novità del bitter lemon. Poi perchè scardina i vincoli di un prodotto di nicchia come l’aranciata amara, ormai più vicino a un luogo comune che a una bevanda. Infine e più in generale perchè costituisce una novità assoluta partendo dal basso di una proposta molto commerciale anzichè da una fighissima etichetta dal nome ammiccante a fantasiosi appigli storici che imbottiglia solo in ampolle dalla forgia originale.

Il mix di amaro e piccante è una forte scossa in gola e nel naso; una roba che si concilierebbe meglio con una spruzzata di limone rispetto al quinto di succo d'arancia imposto dalla denominazione e dalle ultime norme in materia. Cerco di immaginare un'occasione per questa bibita e non vedo ragazzini nei paraggi; mi sembra di scorgere, tra gli altri, qualcuno in posa: la assapora con la smorfia di chi ritrova una vecchia conoscenza di cui sarebbe troppo lungo raccontare; è una storia che fa male, ma che sa di vita vera.
Sarà forse buona per quei cocktail arancioni tipo spritz da gustare come aperitivi nelle occasioni eleganti, ma toccherà tener nascosta la bottiglia, perché viene da postacci in cui condivide gli scaffali con scatole di tonno marocchino in olio di semi e crostate pasticcere che costano meno del pane.

La si trova in vendita nella bottiglia in pet da 1 litro presso i discount D-più con l'etichetta Delidor, in una linea lanciata questa estate che include anche chinotto e ginger beer, spesso avvicendate nelle offerte da volantino. Io l'ho presa al D-più di Via Boccea, pagando 49 cent la bottiglia in pet da 1 litro.


22/10/2018
nel quarto capitolo de La dinastia Sockerdricka si racconta della prima cola svedese


15/10/2018
Terzo capitolo de La dinastia Sockerdricka con un'antica aranciata


08/10/2018
nel secondo capitolo de La dinastia Sockerdricka incontriamo un'altra gazzosa svedese


09/07/2018
nel nuovo supplemento La dinastia Sockerdricka continuiamo a esplorare il ricco mondo delle bibite svedesi.



02/07/2018 - appendice LXXV b                  

Sono passati 13 mesi da quando assistevo critico alle goffe mosse della Coca Cola nel mercato delle bibite dietetiche (appendice LXVII b). Il concorso che aveva indetto ad agosto 2017 offrendo un milione di dollari a chi avesse trovato un nuovo surrogato acalorico dello zucchero non ha dato esito, intanto ha rinnovato l'estetica dell'intera gamma e preso altre decisioni avventate, come quella di accantonare il marchio "Life" confinando la stevia alla nuova "Coca-Cola Zero Calorie anche con estratto di stevia"... un nome pratico, da usare in espressioni giovanili tipo: "dài fra', andiamoci a fare una Coca ZCACEDS"

Green Cola

Però l'attività dell'industria Coca Cola nell'ultimo burrascoso decennio di crisi del mercato delle bibite e di  crisi economica generale, non si è limitata al maquillage delle etichette e a ragionare sulle percentuali di dolcificanti. Ha soprattutto "razionalizzato" i propri impianti, che vuol dire, anche in presenza di grandi utili, che ne ha chiusi diversi, anche in Italia.
Se razionalizzare trae origine dal latino ratio e se questo era il termine con cui Cicerone traduceva il greco logos, un po' di logos non poteva non toccare anche ai greci. Si chiamerebbe Coca-Cola Hellenic la società che imbottiglia per il gruppo in mezza Europa, ma dalla fine del 2012, vista la situazione economica del paese in cui nascque nel 1969, ha spostato la sede in Svizzera e si è quotata alla borsa di Londra.
È così che nasce la cola verde di oggi, perchè la fabbrica EMCO di Orestiada (Tracia) dal 1983 imbottigliava su licenza i prodotti della multinazionale e nel 2009 ha dovuto pensare a come reinventarsi produttore. Lo ha fatto proiettandosi nel futuro e lanciando nel 2012 una cola che sfida apertamente il suo vecchio padrone sorpassandolo nell'intuizione di una cola molto più verde delle sue.
La Green Cola non è solo più verde delle eco-versioni della Coca-Cola, ma anche più "zero" e sarà per questo che la confezione è tutta nera: zero calorie, zero zucchero, zero aspartame, zero conservanti, zero acido fosforico e zero ciclamati; così si pubblicizza, con caffeina naturale da chicchi di caffé verde e la stevia come dolcificante. Dimentica i coloranti, che non è riuscita ad eliminare, come invece ha fatto ad esempio l'omonima cola che la giapponese Asahi ha lanciato 2 anni prima. Stesso nome, stessi colori della confezione e stessa ispirazione, ma la Green Cola d'oriente fa a meno anche del colorante sintetico E150, sostituendolo col malto nero che l'azienda già maneggia nella sua prevalente produzione birraia*.

Il gusto non è granché e il sapore tipico della cola è smorzato da una prevalenza agrumosa, ma la sua distanza dallo standard non è detto che sia uno svantaggio. Eppoi questa non è tanto una cola, quanto una bibita alla stevia.
Io non sono sensibile a questo tipo di argomenti, ma c'è qualcosa della Green Cola che sta funzionando, infatti dopo aver eroso il mercato regionale e quello nazionale, sta avendo un buon successo anche nell'esportazione. Spagna, Germania, Italia. "Zero", "naturale", "verde" sono le parole che stanno trascinando le vendite; è un altro "logos", questa volta fecondo, che sancisce la rivincita di un piccolo produttore greco sul colosso egemone.

Alla fine del 2017 l'ho vista per la prima volta in un supermercato Panorama e oggi la trovo con continuità anche nel Pam sotto casa. Ha un'etichetta scritta tutta in italiano e costa 50 centesimi a lattina.

*Sono poche le cole che rinunciano al colorante caramello; tra le italiane ricordiamo la Cola Coop (vol. 23) che pure adotta l'estratto di malto d'orzo per imbrunire la miscela



25/06/2018 - appendice LXXV a
                  

Qui dentro si parla di aromi e di bollicine perchè questi sono i due elementi fondanti la categoria delle bibite gassate. Una volta sottintesa l’acqua, senza la quale non ci si troverebbe neanche nella categoria delle bibite, un solo altro elemento è praticamente sempre presente, il dolcificante. Che sia lo zucchero, il fruttosio, la desueta saccarina, l’aspartame o i modernissimi glicosidi steviolici, il dolcificante caratterizza le bibite gassate fino a diventarne l’elemento principale nelle campagne di demonizzazione salutiste: la si chiama guerra alle bibite gassate, ma in realtà il nemico principale sembra essere lo zucchero, che apporta calorie viziose senza contraltari nutrizionali. In questa doppia appendice peschiamo in Grecia due prodotti con approcci radicali al tema del dolcificante.

lemon soda - Tuborg

Con le scorribande insulari di Chios e Creta, abbiamo toccato solo elementi particolari della questione delle bibite greche; oggi entriamo nel suo cuore più antico e universale, con una bibita che nella sua essenzialità ci riporta alle origini delle bibite, proprio come la Grecia antica sta al centro delle nostre origini culturali.

Il condimento più utilizzato delle prime bibite frizzanti veniva dal succo del limone, tra bollicine naturali o generate dalla soda; e soda è diventato anche uno dei nomi dell'acqua gassata. Oggi in Europa per soda o club-soda si intende generalmente un'acqua molto gassata, spesso con forte presenza di minerali che partecipano al gusto nella sua funzione di mixer per cocktails. La lemon soda di oggi fa riferimento a questo uso del termine "soda" anzichè a quello americano, in cui diventa sinonimo di bibita gassata (carbonated soft drink), che viene invece richiamato per esempio dall'antico marchio italiano Lemonsoda.

In Grecia, come in gran parte d'Europa l'acqua frizzante non è diffusa come da noi, è una bibita generalmente costosa e venduta per lo più in bottiglie di vetro e la club-soda è molto più diffusa che in Italia, sorpassando la tonica nella sua funzione di mixer.
La bibita di oggi è una specie di ibrido, una club-soda aromatizzata al limone, che sta a metà strada tra la club-soda vera e propria e le nostre gassose dolci; credo sia una strada percorsa a ritroso a partire dalle gassose dolci per venire incontro alle moderne ansie dietetiche. Il percorso contrario di quello di alcuni suoi parenti come la Perrier al limone in Francia e la Spa al limone nei Paesi Bassi e in Belgio.

La lemon soda che gustiamo oggi è uno dei tanti prodotti greci che è possibile trovare in commercio con questo nome. È probabile che queste sode al limone siano tornate di moda negli ultimi anni e infatti quella della Tuborg è stata lanciata solo nel 2016, ma hanno sicuramente nel paese degli storici predecessori alle origini dell’attività gassosaia greca. Nella sua connotazione di bibita antica, la si può anche considerare come una versione leggera del seltz limone e sale della Sicilia orientale.
Anche dalla proposta pubblicitaria la Tuborg lemon soda sembra volersi accasare tra le bibite magre piuttosto che tra i mixers, ma se vogliamo utilizzarla in quest'altra veste gregaria, non limitiamoci agli alcolici: può essere usata per limonare e inasprire anche alcune bibite troppo smielate.

La scelta di un prodotto così poco rappresentativo nelle premesse, col suo marchio straniero e la recente introduzione sul mercato, è in realtà legato alla fedeltà del prodotto alla sua originale formulazione; i suoi concorrenti infatti sembrano preferire al succo di limone un aroma molto più simile alla citronella, la cui maggiore pungenza balsamica avrà forse una ragione nella sua veste di mixer, ma non certo nel modello di bibita ancestrale che rappresenta la soda al limone. C'è da dire poi che non è la Tuborg danese a produrla, ma la greca Olympic Brewery dell'enorme gruppo Carlsberg.

In conclusione questa lemon soda è insieme antica, nell’ispirazione, e moderissima nella sua ambizione di attrarre attraverso l’essenzialità un consumo attento agli aspetti dietetici. È moderna anche nel suo sostituire la pratica apparentemente banale di aggiungere all’acqua gassata un po’ di succo di limone fresco e... sempre attuale nel rivenderlo a caro prezzo.

La Tuborg in Grecia è leader nel settore della tonica e della club soda e nel 2017 ha affiancato alla Lemon Soda, altri due gusti: la Lime-Green Tea Soda e la Orange-Cinnamon Soda.



10/04/2017 - appendice LXXIV
                  

Frutti Rossi - Tomarchio

Anche per le bibite la Sicilia è una regione a statuto speciale. Le sue tradizioni, l'isolamento industriale e logistico hanno concorso a preservarle ricchezza e peculiarità nel nostro campo. Ci sono tre grossi produttori e imbottigliatori come Polara di Modica (RG), Tomarchio di Acireale (CT) e Sicilbega di Torrenova (ME), che hanno assorbito senza annullare altri marchi storici come Partanna e Cucinotta; sopravvivono diverse aziende antiche come La Mattina, Forte, Bona, che resistono allargando l'attività ad altri campi o rilanciandosi con un nuovo stile; si affacciano giovani imprese di nicchia.
Soprattutto Polara e Tomarchio dimostrano una grande vivacità commerciale: rinnovano la propria immagine e lanciano nuove gamme e confezioni adottando con disinvoltura gusti antichi e di nicchia. Una simile indole, proporzionata alla rigidità dei dettami internazionali, è propria anche della Sibeg, il concessionario insulare della Coca-Cola: spesso la Sibeg ha anticipato o testato dei prodotti che poi sono stati lanciati su scala nazionale o sono vissuti una sola estate; ricordo ad esempio la Fanta al gusto pesca e mangostano.

Molti marchi, anche stranieri, si richiamano agli agrumi siciliani, ma anche il fico d'India ha una sua pecurialità regionale. La sua grande diffusione e larga coltivazione, così come l’ampia adozione nella cucina siciliana, hanno fatto diventare questo frutto, originario del Messico e diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, un prodotto tradizionale (sciroppo dolciario, liquore, etc....).
Eppure non ho mai visto una gassosa al fico d'India; anche se Sanpellegrino, tra i doppi gusti delle tre Specialità Italiane* lanciate nel 2016, lo propone insieme all’arancia. Purtroppo anche la Tomarchio non gli concede il ruolo di protagonista assoluto e fin dal nome sottolinea la coabitazione con altri frutti: 17% di fico d'India, 3% di melograno e 0,1% di more di gelso, più  i consueti aromi che annullano la possibilità di percepire il reale peso dei contributi in succo.

È una bibita molto particolare e con un gusto inedito, ma non un prodotto riuscito. Assomiglia ad un altro inciampo della Tomarchio con ottime premesse: la Melagrana vestita in bottiglietta di vetro. Come questa, la Frutti Rossa è fin troppo succulenta e finisce per assomigliare più ad un succo di frutta che ha una gassosa, con la percezione amplificata dall'abbondante colorazione data dal succo di carota nera. L'asprezza e la dolcezza sembrano prendere strade separate anziché bilanciarsi in armonia. Mi sembra addirittura essere un prodotto più concettuale che uscito da una selezione di progressivi assaggi, anche per la presenza dello zucchero di canna che non ricordo in altri prodotti confezionati in bottiglie di pet.
La considero un tentativo migliorabile, magari lasciando da solo o quasi il fico d'India... hai visto mai che ne vien fuori una ficata!

L'ho acquistata online tramite il pratico servizio del sito del produttore. La confezione da sei bottiglie in pet da 1 litro più la spedizione mi sono costate 15,70 euro in tutto.

*le altre due bibite della gamma uniscono chinotto e menta piperita e, nel miglior prodotto della linea, chinotto e mirto.


09/01/2018
nuovo capitolo del supplemento "Compagna Limonad" in cui propongo un kvas alla visciola e ne ipotizzo l'adozione come bevanda delle feste natalizie.



14/12/2017 - appendice LXXIII
                  

Uludağ Gazoz

Sono stato a Cipro, anche se non posso dire di averla visitata adeguatamente per farmi un’idea completa del mercato delle bibite. C’è un grosso produttore locale che si chiama Kean che, oltre ai propri prodotti, imbottiglia tradizionalmente anche marchi internazionali. In questo momento produce il Vimto (vedi app. VIII), la celebre spuma inglese alle bacche molto diffusa in Medioriente. Nella gamma della Kean però prevalgono aranciata e limonata; dei buoni prodotti, anche se forse quello più interessante è la meno diffusa mandarinata. Nella turistica Pafo niente di folkloristico o esotico mi è balzato all’occhio. Mi sono poi spinto a Nicosia, dove il fermento commerciale internazionale e soprattutto asiatico mi ha aperto alcune prospettive, ma non era quello che cercavo: avevo in mente l’equivalente della canelada o del byral cretesi, la Mouss' OR corsa, il mastice di Chios o la spuma-passito siciliana; insomma qualcosa di caratteristico ed esclusivo... non so, cosa si coltiva a Cipro, le nespole? Ecco, una bella gassosa alle nespole.
Eppure a Nicosia, tra i tanti murales, mi ero imbattuto in questo incoraggiante logo qui a fianco. Purtroppo però nessun concorrente autoctono dei giganti della cola: credo che giochi sull’acronimo tecnico c.o.l.a. (cost of leaving adjustment, una specie della nostra vecchia “scala mobile”). Ma è balzando nella parte turca di Nicosia che mi si schiude finalmente un panorama del tutto nuovo.

Una volta sorpassato il confine apparentemente esile e provvisorio tra la zona greca e quella turca, mi trovo in tutt’altra città; al di là delle prime esche commerciali a ridosso della dogana, ho l’impressione di essere in un continente diverso, pur nella confusione di quello che mi lasciavo alle spalle. L’unico spiraglio internazionale è la curiosa accoglienza ritratta nella foto qui sopra: un gruppo di cingalesi mi offre bicchieri di Coca Cola e Fanta. È il Vesak, una specie di Natale buddista in cui, per tradizione, si offre da mangiare e bere ai viandanti. Nonostante sia domenica ho la fortuna di trovare alcuni negozi aperti per le bibite. Sono in Turchia: tutti i prodotti vengono da lì. Mi premuro subito di verificare se il souvenir turco che ho ricevuto tanti anni fa fosse avariato oppure esiste veramente una bibita gassata così cattiva. Esiste, è il Şalgam, succo di rapa rossa o carota fermentato, salato e a volte speziato, una roba completamente slegata dalla più diffusa convenzione delle bibite fredde, tradizionalmente utilizzato nella Turchia meridionale per dissetarsi e accompagnare piatti dal sapore forte. Occorrono una lunga preparazione e papille dalle larghe vedute.
Ma in Turchia c’è anche una grande tradizione gassosaia vicina alla nostra e su questa specie di provincia isolana, ho modo di coglierne dei tratti: la grande abbondanza di aranciate e limonate, ma anche alcuni gusti particolari, come la bibita all'anguria di due appendici fa e una curiosa bibita al caffè frizzante, probabilmente di più lunga tradizione, che fa eco alle nostre gassose calabresi.

Visto che ho messo un piede in Turchia e che non potevo portarvi il terribile Şalgam, sono qui con la gassosa turca per eccellenza, la "leggendaria", come ama autodefinirsi in etichetta, Uludağ Gazoz. Ma attenzione, perché ne esiste una versione più commerciale in bottiglia e in lattina verdi, più facile da trovare anche da noi. Si tratta però di un gusto diverso, forse più esportabile e appetibile ai consumatori slavi e balcanici, con una più isolata e conformista nota di vaniglia. Questa è diversa e rivendica in etichetta il 1930, più o meno l'anno in cui è nata. Più o meno gli anni in cui esplodevano nella Turchia repubblicana il mercato e l'industria delle gazoz.
La Uludag rivendica per la sua bibita-simbolo una formula segreta tramandata nell'avvicendarsi delle generazioni di una gestione familiare. Il suo gusto allegro e sdolcinato richiama quello delle gomme rosa vendute in confezioni singole alla fine degli anni '70. Ancora vaniglia, ma evidentemente fragola o una sua controfigura aromatica. Un sapore difficile da immaginare tanti decenni prima, ma si sa: il sapore è difficile da descrivere e impossibile da fotografare; le sue vicende non si trascrivono come storia e allora fa bene questa gassosa a dirsi leggendaria.



06/11/2017 - appendice LXXII
                 

Freez Tamarind

Quando Rezzonico tirò fuori il ghiacciolo al tamarindo, questo era già confinato all’archeologia gelatiera. Oggi il fatto che Rezzonico abiti il culto, la stessa categoria della chicca che reclamava, è la misura di quanto sia inattuale quel gusto dolciario. Per incontrarlo nelle bibite gassate avevamo addirittura rievocato l’Erba Soda con una specie di seduta spiritica (app. XXIX); nel frattempo ci aveva pensato la ditta siciliana Polara a colmare la lacuna ripescandolo nella sua serie Chioschì, la stessa dalla quale abbiamo gustato il Mandarino al Limone e che, come suggerisce il nome, imbottiglia le bibite della tradizione dei chioschi catanesi, dove il tamarindo gassato continua ad essere servito, investito di proprietà digestive.

Ancor più delle reclamate proprietà, è il sapore a confonderlo con la prugna, ma il tamarindo è tutt’altro frutto; o meglio è un legume che cresce in alberi tropicali di alto fusto, la cui coltivazione si è probabilmente diffusa dall'India. Oggi lo incontriamo proprio sulla strada della sua provenienza, in Libano, un paese in cui è coltivato e partecipa all'alimentazione tradizionale e non è come da noi un frutto esotico presente solo negli sciroppi ereditati dall'imprenditorialità farmaceutica ottocentesca.
In Libano il tamarindo viene consumato in una bevanda rinfrescante tradizionale liscia; da qui nasce la trasposizione in bibita gassata di nostro interesse. Un fatto raro, ma non unico: anche nell'America Centrale, dove il tamarindo partecipa a ricette dolciarie, finisce per popolare pure il mondo delle soda e il messicano Jarritos Tamarindo è un celebre esponente del genere.

La linea di bibite libanese Freez (ben 19 gusti senza le versioni diet e energy) viene dalla ditta Kassalty Chtaura, un'impresa familiare fondata nel 1974 che produce in Libano, non senza velleità di esportazione, tutto lo spettro del bevibile.
La bottiglia in vetro, classica nel formato da 275 ml, ha il tappo a corona svitabile; una soluzione che non avevo ancora incontrato nel nostro campo. Però le grandi differenze con i nostri tamarindi, le incontriamo sotto il tappo. La prima sorpresa è un fortissimo odore che non solo non sembra legato direttamente al gusto del tamarindo, ma direi sfrontatamente artificiale, potendolo accostare solo a quello di certi detersivi industriali per pavimenti. Una roba talmente spiazzante e in contrasto con i dichiarati ingredienti naturali, da ammettere il beneficio del dubbio: può perfino darsi che sia un vezzo delle bibite locali e, in fondo, lentamente ci si abitua a quel tanfo. Il sapore invece è ottimo; gli manca forse la caratterizzazione più genuina, ma un certo grado di "astrazione" è spesso una delle caratteristiche migliori delle bibite che puntano ad essere "universali"... una cosa che non ci si aspetterebbe dal tamarindo. Una cosa che, probabilmente, deluderebbe Rezzonico.

L'ho trovato nel sempre prolifico negozietto alimentari turco di Via delle Palme. Costava 1,80 euro a bottiglietta.



10/10/2017 - appendice LXXI
                  

Uludag Frutti - cocomero & fragola

Premessa: il cocomero è sacro; la sua ricerca, la custodia e la consumazione prevedono dei rituali precisi che si svolgono lungo l’estate, scanditi dalla fluttuazione del prezzo. È inutile che cercate di riconoscervi nella precedente affermazione, perchè le mie sono naturalmente le uniche pratiche ortodosse e universali, rispetto alle quali qualsiasi deviazione è un sacrilegio. Ciò postulato, oggi trattiamo di una specie di capitolo posticcio dell’ideale testo sacro del cocomero; in sostanza parliamo di superstizione. Tuttavia è una superstizione che ho sempre indagato con curiosità poichè in effetti la mia vocazione blasfema si estende anche al campo in cui mi riconosco il ruolo di sacerdote supremo.
Superstizione, dunque: esitono altre vie minori per godere del prelibato e sacro gusto? Esistono altri vicoli o scale d’emergenza per l’ascesi? Credo di no: le simpatiche gomme da masticare dalle sembianze di micro-anguria e i gelati a stecco con forma di fetta sono forse poco di più che simpatici gadget alimentari. Perfino le migliori granite esauriscono la loro goduria nel rimandare alla vera, unica, retta degustazione.

D’altra parte l’ardore stesso, la bramosia di redenzione, ci ha fatto spesso errare in passato e le pratiche oggi riconosciute come ortodosse traggono beneficio dall’affinamento di metodi geometrici, come quelli legati agli esoterici tentativi di consumare separatamente il nucleo, e da errori clamorosi quali i nefandi esperimenti di congelamento. La strada del mistico è lastricata di peccati e superbia.
La superstizione definitiva e più ambiziosa sta nella bibita al gusto di anguria. È ambiziosa perchè pretende di diluire e astrarre una fruizione legata alla carne del frutto, alla struttura macro-cristallina della sua inflessibile polpa, rendendola immediatamente disponibile a tutte le papille orali. Così fallisce l’imitazione, riuscendo a riprodurre solo parte del godimento, nel tentativo di trasporre i contributi del miracolo gustativo che si verifica col cocomero vero.

Sono rimasto disgustato, circa venti anni fa in Grecia, quando mi sono imbattuto nella Fanta Watermelon, ma non mi sono arreso. Oggi mi sarei aspettato di incontrare, prima o poi, un prodotto convincente dal sud-est europeo, un qualcosa di simile al melone bulgaro già incrociato (app. LV), magari in un fiasco in pet da 2,5/3 litri che riproducesse anche l'opulenza dell'originale. Non avrei immaginato di incontrare tutto il contrario e per di più ad opera dei turchi, nei nostri adagi poco avvezzi alla delicatezza nel consumo.
Le graziose bottigliette da 20 cl che vi porgo oggi per l'assaggio contengono una famosa acqua minerale turca addizionata di bollicine e gradevolmente aromatizzata con cocomero e fragola. È un gusto della linea Frutti, della storica ditta turca di acqua e bibite Uludag. La chiave vincente di questa gassosa è la leggerezza: l'assenza di un colorante quasi scontato, il moderato bilanciamento di bolle e zucchero, forse l'intervento discreto della fragola, donano una nuova possibile, anche se subalterna, veste al frutto più succulento, squisito, delizioso e splendidamente volgare.
Quindi qualcosa si può fare in questa strada, creando un dolce amuleto di perdizione; un santino di padrepìo, un rosario, un’ampolla di acqua santa; succedanei portatili del culto. Molto buona, ma ancora niente a che vedere col sacramento.


18/09/2017
quarto capitolo del supplemento "Compagna Limonad": la Russia caucasica allunga la vita alla cotogna, un frutto quasi dimenticato.



11/09/2017 - appendice LXX                   

Orzata Calabria

Sono ormai molto poche le bibite tipicamente italiane che ancora non hanno occupato uno spazio in questa rubrica: manca il chinotto, sospeso da anni in attesa che si concluda una ricerca estenuante, l'aranciata rossa e poco altro. Mancava anche l'orzata, ma a questo rimediamo oggi. A differenza delle prime due bibite non è molto diffusa: si trova facilmente in vendita lo sciroppo, destinato più probabilmente a granite e bevande lisce, mentre l'orzata frizzante è una questione d'altri tempi, forse neanche tanto estesa. Per ripescarla ci torna in soccorso la Calabria, regione con un'industria gassosaia anacronistica, scampata all'uniformazione dei grandi produttori e della grande distribuzione.
L'orzata oggi è una specie in via d’estinzione, come il rabarbaro, il tamarindo, il carciofo, la gassosa alla menta, la sambuca; dimenticate anche nei ripescaggi delle bibite chic-retrò, che preferiscono allargare le proprie gamme ai mixers stranieri come il ginger-ale e le toniche aromatizzate, vivono solo in realtà locali come i chioschi di Catania, qualche piccolo produttore tutt'altro che chic e l'iniziativa domestica di qualche nostalgico che mischia gli sciroppi all'acqua gassata.

L'orzata è una bevanda antica che nasce unendo all'acqua il pesto di orzo o altri semi. Anche detta lattata per il colore biancastro, adotta nei secoli sempre più univocamente la mandorla. In Italia oggi, nella sua definizione legale, non le serve più neanche la mandorla, ma solo il benzoino, un composto organico naturalmente presente nell'olio di mandorla amara. Mantiene però il colore bianco-amido, quasi una stonatura tra le bibite gassate per via del rimando al latte.
La bibita di oggi è prodotta da Acqua Calabria, la stessa ditta della Brasilena, che tuttavia ne omette la paternità sul proprio sito web in cui cita solo una gassosa e una tonica, oltre alla celebre gassosa al caffè.
Avrebbe pure la caratteristica portante di molte bibite gassate, la sospensione tra il dolce e l'amaro, ma è qualcosa di diverso da tutto il resto. L'unica mia analoga esperienza olfattiva deriva dallo sniffare la Coccoina, mentre nel sapore l'accosto a certo marzapane mal riuscito. È un gusto strano, apparentemente senza simili o possibilità di collegamento tra le bibite gassate. Nessuno direbbe che è protagonista, seppure non solitario, in una delle bibite più bevute al mondo come la Dr Pepper.

A me che l'ho scoperta così all'improvviso, proveniendo da una antica adorazione per il latte di mandorla, viene spontaneo stroncarla, nonostante la grande simpatia verso tutte le gassose superstiti come questa. Ma a parte l’apprezzamento del gusto, mi ha generato variegati impulsi, dall’improvvisa voglia di guidare una Duecavalli all’ansia di immaginare oggi un consumatore di questa orzata, magari d’inverno: sapere cosa fa durante il giorno, come ha conosciuto al bibita e ci si è affezionato, come se la procura e con quale eventuale rito la consuma. Poi mi ha ripreso la necessità periodica di fare un bilancio delle cose che abbiamo perso e guadagnato negli ultimi decenni; non le cose importanti ma quelle che caratterizzano esperienze semplici e ci scandiscono i ricordi. Ad esempio oggi finalmente il cornetto gelato lo si può mangiare senza una strategia per evitare lo spreco della punta e in cambio di ciò abbiamo dovuto accettare che il nocciolo della maggior parte delle pesche sia indivisibile dalla midolla. Pro e contro di ere diverse... a voi sta decidere da che parte mettere l’estinzione dell’orzata gassata.

Difficile da rimediare a Roma, anche presso i tanti banchi di prodotti calabresi della città. A me l'ha portata su commissione lo storico venditore di Portaportese. 5 euro per la confezione da 6 bottigliette.



04/07/2017 - appendice LXIX                   

Vita Cola

Ero bambino, ma la ricordo la fastidiosa epopea atletica della Germania dell’Est, anche se boicottò insieme al blocco sovietico le mie prime Olimpiadi da spettatore, quelle del 1984. Da lì in poi fu un lento declino, con l’esplosione dell’antidoping, la dissoluzione del blocco e la migrazione di alcuni medici sportivi in Cina per creare nuovi mostri. Quella vicenda ha impresso nella mia mente un marchio malvagio e insalubre sulla DDR con incubi ad occhi aperti sulle metamorfosii degli ex-atleti esposti a bombardamenti ormonali per mortificarne o esaltare di volta in volta le caratteristiche e facoltà maschili. Da allora la DDR, o meglio le espressioni del suo regime, hanno avuto per me sempre un sapore “medicinale”, in una accezione assolutamente negativa che parallelamente adottavo per un quasi ideologico sospetto sulle intromissioni chimiche nelle mie vicissitudini organiche. Riscopro improvvisamente questa sensazione mentre tracanno una Vita-Cola, l’anti-cola tedesco-socialista riportata in vita negli anni 2000 e trionfalmente impostasi sul nuovo mercato capitalista.

La storia della Vita Cola inizia nel 1956 quando il governo programma di rifornire la popolazione con una migliore offerta di bibite analcoliche anche per contrastare il diffondersi del'alcolismo; sicché il Ministero dell'Industria sviluppa una bibita che corrisponde alle bevande caffeinate occidentali. Nel 1958 inizia la produzione della "Brauselimonade mit Frucht und Kräutergeschmack" (=bevanda gassata con aroma di frutta ed erbe) poi opportunamente dotata anche del nome più sintetico e accattivante di Vita-Cola. Da allora inizia a diffondersi col modello di produzione su licenza: nel 1960 oltre 100 impianti di marchio diverso, tra cui molte birrerie, imbottigliavano la Vita-Cola, fino a diventare circa 200 nel periodo di massima diffusione. La pubblicità della ricetta naturale, creata a partire dal genuino estratto di noce di kola, puntava sull'aspetto stimolant, assicurato dalla caffeina e su quello salutare per la presenza di vitamina c come ingrediente a sé stante, in aggiunta al minimo contributo degli estratti di agrumi che pure la caratterizzavano nel gusto.
Alla caduta del muro segue la solita storia delle bibite nazionali del blocco comunista, con un primo periodo di abbandono e confusione sui diritti del marchio; poi l'acquisto della licenza da parte di un privato e il rilancio; infine un nuovo successo, negli anni 2000.

Non è una cola molto occidentale, tanto è vero che nel 1967 la segue nel mercato della DDR la Club Cola, espressamente pensata per imitare le cole oltre cortina, e persino la ampia gamma di bibite oggi prodotte col marchio Vit, include anche la Vita Cola "Pur", senza "citrus kick", vitamina c e le altre caratteristiche che la distinguono dallo standard internazionale. Nel sapore è poco evidente la cola di base, si avverte un mix agrumato più spostato sull'arancia che sul limone e il resto è uno sgradevole sentore di aspirina che risuona con la mia immagine medicinale della DDR. A provarla oggi, venendo dalle note cole più diffuse, sembra quasi una bibita inquinata, sinistramente addizionata, dopata da levare il gusto.

Oggi l'ingrediente che più caratterizza la Vita Cola, il cui nome nel frattempo ha perso il trattino, è la nostalgia della popolazione della ex Repubblica Democratica Tedesca, come per altri prodotti aimentari e non che sono tornati in auge dopo essere stati frettolosamente accantonati con la caduta del muro. Questo fenomeno ha anche un nome: ostalgie, crasi tra ost (=est) e nostalgie (=nostalgia), ben rappresentato nel film di culto Goodbye Lenin. Il film racconta di una donna che subisce emotivamente il contrasto tra gli ideali socialisti e l’oppressione del regime tanto da trascorrere la sua vita in ospedale, ma soprattutto del figlio che dopo la caduta del muro inscena per lei una rappresentazione degli eventi ideale, riscrivendo la storia per non traumatizzare la madre. la benevola finzione culmina col racconto di una liberazione di Berlino in cui gli occidentali accedevano finalmente all’agognata società comunista; la madre a quel punto aveva già scoperto la verità ma non fermava la recita del figlio, morendo prima dell’unificazione delle germanie. Il successo della Vita-Cola è sicuramente legato a un processo psicologico simile: l’accantonamento della realtà e l’adozione di una sostituta verosimile a noi più gradita. È così che questa bibitaccia ha costruito un progressivo trionfo fino a sorpassare la Coca-Cola in Turingia, come avviene in poche altre parti del mondo, ma per chi non ha vissuto quella storia lì è veramente difficile apprezzare questo miscuglio dal sapore medicinale.

Goobye Lenin, addio, so che non hai lasciato solo macerie, ma questa Vita-Cola non contribuisce affatto a una valutazione positiva della tua eredità.



12/06/2017 - appendice LXVIII
                  

1904 Gassosa

In questi mesi di assenza di A&B non sono stato con le mani in mano: ho continuato a viaggiare e ho portato nelle conferenze le mie storie di bibite gassate, raccogliendo la stessa acclamazione che sucitatano sul web. Qui sotto potete constatare l’interesse dimostrato in un convegno nella splendida cornice del Castello di Otranto.

Ma questa trasferta salentina è stata anche una specie di pellegrinaggio in una terra già omaggiata con l’inclusione della Gassosa Chiurazzi nel Tour delle Gassosse del Mezzogiorno e che annovera alcuni altri piccoli produttori come la Conap di Melissano con la sua gassosa Sprizzy.
A proposito di piccoli produttori, si fa un gran dire delle bibite artigianali, soprattutto da quando l’unica porzione del mercato in ripresa è quella delle bottigliette dai gusti e dalle etichette ricercate; una fetta scarsa in volume ma non trascurabile in fatturato. Credo che l’abuso del termine "artigianale" nasca sulla scia di quello analogo per le birre, di per sé più credibile nei presupposti. Nessuno negli anni ‘80 si sarebbe sognato di proporre una bibita artigianale, anzi le sprite e le cochecòle avevano alle spalle delle sottintese efficientissime catene di produzione industriali, automatiche e futuriste come il motore fire della fiat e i simpatici robot ancora a metà strada tra gli eroi dei cartoni animati e gli spettri dei futuri ladri di lavoro (con il pet come il nuovo acciaio di un futurismo che giocava in borsa).
Negli anni '80 le impurità sul fondo, le fibre in sospensione, il vetro spesso e scuro, un’immagine retrò, sarebbero stati percepiti come difetti di fabbrica o segnali di qualità scadente. Oggi invece c’è chi, con quelle caratteristiche, vende le “bibite artigianali” e non si capisce bene cosa voglia dire. Per me un prodotto è artigianale quando la gran parte della sua costruzione avviene a mano e senza automatismi di tipo industriale. Sono sicuramente artigianali le bibite alla spina nei chioschi catanesi come quello di Giammona in cui anche gli sciroppi sono fatti in casa. Si possono dire artigianali le spume della casa fatte ancora in alcuni bar toscani sulla scia di una tradizione ristoratrice che spero di riuscire a documentare prima dell’estinzione. E’ sicuramente artigianale la gassosa di oggi, perchè in ogni fase della preparazione prende forma dal lavoro manuale di Marco Chiurazzi: è Marco che unisce gli ingredienti per lo sciroppo di base; è lui che lo mischia con l’acqua e l’anidride carbonica con un gasatore che lui stesso ha potenziato per adattarlo a questa produzione; è sempre lui che richiude e sigilla le singole bottigliette in vetro con tappo meccanico.
Marco mi ha accolto nel suo laboratorio-mostra nel pieno centro di Lecce e mi ha raccontato com’è nata la sua attività. E’ l’attività del padre e del nonno, cresciuta in veste industriale prima di essere ceduta agli attuali proprietari del marchio Chiurazzi. Ma la 1904 nasce dall’esigenza di portare indietro l’orologio del gusto a qualche decennio fa, quando la “ricetta sbagliata” del nonno era ancora alla base della formula della gassosa salentina. Ne viene fuori un ottimo prodotto, molto caratterizzato nel gusto ed eccezionalmente gradevole nel profumo, che eccelle per la schiettezza dell’infuso di limoni. Una gassosa con un aroma più forte della media, nella direzione di una limonata leggera.
Unico difetto, pur per un prodotto di evidente alta qualità: il prezzo. La bottiglietta da 25 cl costa 3 euro in bottega e 4 euro al ristorante. È troppo per un prodotto popolare, per la più semplice e antica delle nostre bibite, che nello stereotipo della tradizione è ancora ritratta in mano ad un ragazzino ai bordi del campetto dell'oratorio o ad un vecchietto sul tavolaccio di una bocciofila, prima che sulla tovaglia di un ristorante chic.
Comunque, da quanto ho capito io della storia della 1904, il gusto non è necessariamente legato all'aspetto artigianale, poichè questo deriva dalla disponibilità di mezzi produttivi piuttosto che dall'esigenza di posizionarsi in una diversa nicchia commerciale. Allora auguro a Marco di approdare a mercati più ampli e metodi produttivi meno costosi, progressivamente, magari passando prima per i più larghi canali leccati (Eataly?) per affiancare poi una linea più semplice e abbordabile e restituire infine questa gassosa alla sua ispirazione tradizionale definitivamente popolare.

Ho acquistato le bottigliette direttamente nella bottega in cui vengono prodotte, in Corte dei Romiti, a due passi dal Duomo di Lecce. Erano gli ultimi giorni del 2016 e Marco Chiurazzi mi annunciava il prossimo lancio dell'aranciata e la prova di altri gusti; l'aranciata è oggi disponibile, per gli altri chissà.



03/05/2017 - appendice LXVII b                  

Solo un pacchiano souvenir polacco, come scusa per parlare di due o tre cosette.

Coca-Cola Lime

Molte cose si sono mosse negli ultimi mesi in Europa tra i prodotti del colosso Coca-Cola. fanno un po' di clamore soprattutto le bibite col marchio principale, quello abituato a centellinare prudentemente le novità e i cambi di rotta.
È di meno di tre anni fa lo sbarco della Coca-Cola Life in Europa e già viene ritirata per insuccesso commerciale dal mercato britannico, dove era approdata per prima. Era palesemente sbagliata la formula: per correre ai ripari rispetto a una ricetta fallimentare dal punto di vista del gusto con la quale la Life fu lanciata in Argentina, al suo arrivo in Gran Bretagna fu riscritta la proporzione tra stevia e zucchero a favore di quest'ultimo, limitando i danni della prima ma riducendo lo sconto di calorie ad un terzo circa. La stevia è un dolcificante di origine naturale con un potenziale enorme rispetto all'assedio nutrizionista verso gli zuccheri e complottista verso i dolcificanti sintetici; giocarselo con una versione della bibita principe così timida e incerta è stata un'occasione sprecata. Valeva la pena costruirci sopra il futuro, prima che anche questo ingrediente sia attaccato per questioni di presunta tossicità, tanto più che il sapore della stevia non è peggiore dell'aspartame e che quest'ultimo è stato disinvoltamente imposto a forza di pubblicità dal messaggio inverosimile.
Ad esempio il gigante aveva la posizione commerciale e la facciatosta pubblicitaria per mettere la stevia nella Light e nella Zero come se nulla fosse e si sarebbe così portata avanti di diversi anni nella direzione del mercato.

Anche in Italia, dove la Coca-Cola non cambia mai praticamente niente, è stata appena fatta una rivisitazione della gamma ipocalorica con una nuova formula della Life che prevede il risparmio di metà calorie senza ulteriori effetti nefasti sul sapore, una nuova formula non notabile della Zero e una nuova pessima Zero Gusto Limone con limpide note di detersivo per stoviglie.
In Polonia in effetti c'era un'urgenza: la Coca-Cola è presente anche nella sua storica versione Cherry, ma la sua rivale locale Hoop Cola, oltre alla versione alla ciliegia e ad alcuni esperimenti stagionali come quella alla menta che abbiamo già assaggiato, ha da tempo la versione al limone; per non parlare della Pepsi. Credo che sia per intercettare questa clientela già sedimentata che nasce la Coca-Cola Lime, dal ripescaggio di un paio di prodotti al limone e al lime già usciti in qualche paese a metà anni 2000 e presto ritirati. E' un prodotto che ha un senso, soprattutto lì, ma il gusto è migliorabile. In assoluto credo che il "gusto cola" vada difficilmente d'accordo col limone e le sue variazioni, perciò l'unico modo per accogliere l'agrume giallo/verde sia quello di scansare la cola, cosa che non fa, o non può fare la Coca-Cola Lime, che finisce per lasciare in bocca un candito di limetta, ma che sanno fare molto meglio la Polo Cockta e i suoi compagni al di là della vecchia cortina di ferro.



26/04/2017 - appendice LXVII a
                  

Rispetto al viaggio di soli due anni fa, ho trovato in Polonia diverse novità e questa doppia appendice serve per documentarle. Una novità che ripesca dal passato e una novità che sta nel catalogo dei cambiamenti europei della Coca-Cola di questi mesi.

Polo Cockta

È il classico surrogato delle cole americane nei paesi del blocco sovietico. Se nel nome ricorda la Cockta slovena, nel sapore si avvicina molto alla Kofola e ancor di più alle sue eredi slovacche. È una finta cola, con alcuni aromi in comune e naturalmente la caffeina, ma in realtà confonderla con lo standard occidentale porta solo ad una sottovalutazione del suo gusto. Sebbene sia impossibile valutare l'aderenza di questo ripescaggio alla storica bibita polacca, la miscela di aromi con in evidenza una scia limonosa e una erbacea non solo è credibile, ma anche gustosa. Forse solo un poco poco scarica.

In realtà la Polo Cockta non ha una storia lunghissima; anzichè negli anni '50 come molte colleghe, nasce infatti solo negli anni '70, su prescrizione del governo e prodotta dalla cooperativa alimentare Spolem per contrastare nel mercato i prodotti delle prime fabbriche di Coca-Cola e Pepsi. Poi negli anni '90, quando le cole americane diventano più facilmente reperibili, la Polo Cockta scompare. Riappare solo dopo alcuni anni di assenza, ma la Zbyszko, il popolare produttore di bevande che l'ha riportata in vita acquistando i diritti del marchio, constatando l'insuccesso dell'appeal nostalgico, nel 2007 la converte in Polo-Cola.
Solo nel 2015 c'è il rilancio con un richiamo ancora più forte alla formula e al marchio originali, affiancato l'anno successivo da una grafica moderna e accattivante.

Forse la debolezza del marchio e dell'attrattiva retrò deriva dal fatto che due soli decenni sono un po' pochi per entrare nella tradizione nazionale. Però sono rafforzati dalla presenza nel film di culto Kingsajz. Quel film, il cui titolo traslittera l'espressione inglese king-size (= enorme o extra-large), narra le vicende di un gruppo di persone che lottano per affrancarsi dal mondo sotterraneo degli gnomi e vivere nelle sembianze e nella società degli uomini. La possibiltà di sfuggire dagli gnomi malvagi è fornita dalla scoperta da parte del protagonista di una specie di antidoto liquido verde che consente di acquisire le dimensioni umane, ma la permanenza della nuova taglia è garantita dal consumo di Polo Cockta. Il successo del film uscito nel 1987, in tempi di piena esplosione dei movimenti che si opponevano al regime della Repubblica Popolare, sta nella sovrapposizione tra il regime sotterraneo degli gnomi nel film e quello comunista del paese reale, con tutte le corrispondenti ansie di emancipazione e libertà.
È curioso che in una simile costruzione metaforica, uno degli strumenti dell'affrancamento dalla società oppressiva sia la Polo-Cockta, che in fondo, fuori dalla stessa metafora, è un prodotto dell'autorità comunista. Forse il senso è che in una bibita gassata, di qualunque matrice, l'aspetto ricreativo prevalga sui fini politico e ideologico fino a farsene beffa.
Comunque il film termina con una scena inquietante in cui i pochi eroi, liberatisi dalla società degli gnomi, stanno viaggiando in treno quando improvvisamente si accorgono di occupare il vagone di un trenino giocattolo sotto il comando di un bambino gigante, un nuovo livello di "kingsjze". Ciò arricchisce e legittima ancora di più la metafora precedente, ma volendola schiacciare tutta sulle vicende di questa rubrica, si può accogliere la Polo Cockta come la bevanda dell'inizio di questa nuova stagione di Aromi e Bollicine, solo il primo passo in una nuova avventura ricca di sorprese e scoperte.
Oppure magari un dolce rimedio alle nostre meschinità e piccolezze.

ringrazio: 4L3X, Alessandra4, Alonzo, Angelo, Annalariccia, Barboni, Botanicus, Claudia, Daria, Elio, Ermauretto, Falk1, Felix, Freeluther, Gio', Giongiòn, Hussein, Ivan, Lara, Lorenzo, Lud, Mamma & Babbo, MarcoPet, Marco07, Marzia, Nonnamarta, Pipino, Piccila, Pigna, Rosachiara, Pjth, i Puccioni, Putch, Rafa, Sara, Sergio, SimoneAs, Stefania L., Turintureddu, Zanax e ZioTed